Barrio Carapita

Il Barrio Carapita oggi, visto dalla stazione del Metro
Il Barrio Carapita oggi, visto dalla stazione del Metro. (Foto o Jota BP, cortesia)

Nessun segno di allegria sul volto smunto di Carmela il giorno dopo la celebrazione del suo matrimonio. Forse perché delusa dalla prova d’amore della prima notte con quello che ora è suo marito e al quale, com’è usanza nei paesi meridionali dell’Italia primitiva, ha potuto vedere e odorare da vicino soltanto dopo la fine della festa. O, chissà, per l’inaspettata notizia data da Domenico nell’intimità della stanza da letto quando le confessa che finalmente gli erano arrivati i documenti per andare anche lui in Venezuela, dove già viveva il fratello.

− Credo che partirò fra una quindicina di giorni − dice Domenico alla fanciulla la quale, malgrado la terribile notizia, non lascia trapelare alcuna emozione dai suoi immensi occhi marroni poiché ha ben chiaro, in base all’esempio vissuto in famiglia, che gli uomini non vanno contraddetti, e nemmeno si discutono le loro decisioni, pur se prese senza interpellare nessuno. − Affinché tu non viva da sola in questa casa fredda, ma soprattutto per evitare che la gente sparli come suole accadere con le giovani donne che rimangono senza marito, andrai a vivere con mia madre la quale, inoltre, ha bisogno di aiuto, poiché per la sua età, alla soglia dei settanta, cominciano a mancare le forze del corpo, bistrattato assai dal duro lavoro nel campo.

Parte, dunque, Domenico, verso la terra promessa: il glorioso Venezuela dai fiumi maestosi in piena, dalle pianure immense gremite di uccelli canterini, dalle montagne gigantesche imbiancate nelle cime dalla neve perpetua convertita in ghiaccio, dalle spiagge incantevoli ornate di palme tropicali, dalle selve vergini dove da un ramo all’altro degli alberi frondosi giocano allegre le scimmiette e si pavoneggiano le are dal bel piumaggio giallo, verde e rosso. Arriva una domenica di sole rovente senza alcuna traccia di nuvole nel cielo intensamente azzurro che, come il mitico Narciso, si riflette borioso nelle acque de La Guaira[2]. La notte, sistematosi in una stanzetta condivisa, nella stessa pensione in cui alloggia il fratello, non riesce a chiudere occhio pensando a Carmela che al salutarlo col bacio sulla guancia, non si era scomposta urlando dalla disperazione né si era strappata i capelli come, invece, aveva fatto la madre addolorata.

− Sarà che non le è dispiaciuto rimanere da sola? − si chiede mormorando le parole che quasi giungono nitide alle orecchie altrui.

Con questo terribile dubbio che sgorga dall’anima gelosa, il giorno seguente, appena sorge il sole, comincia a scrivere una lettera, la prima che invia nel suo nuovo ruolo di emigrante malinconico. Riceve risposta dopo quasi il terzo mese dal suo arrivo a Caracas, la città splendente dai molteplici contrasti. Apre la busta con le mani tremolanti e il batticuore che gli martella il petto. Cerca con affanno una notizia che non trova per quanto legga e rilegga quel foglio scritto a stento, a grosse lettere, come quelle di uno scolaro di seconda o terza elementare.

− Non fa alcun cenno di essere incinta − ripete a se stesso come un ritornello silenzioso che fa eco soltanto nel suo cuore tormentato. − Io ho fatto il mio dovere di uomo sin dalla prima notte. Cosa sarà successo, allora? Mi sarò mica sposato con una donna sterile come la cavalla di mio padre in campagna, alla quale non c’era verso che nascessero i puledri per quanto la si accoppiasse con diversi stalloni? O forse non ne è ancora sicura e tace per paura di sbagliarsi?

Eppure, neanche nella lettera successiva si fa cenno all’assunto che più preme all’uomo, per cui inizia ad arrossirsi il volto virile mentre s’immagina oggetto di scherno da parte della gente, e sulle lingue viperine delle comari d’ogni specie che raccontano, a modo loro, il fallito tentativo di generare il primogenito nel lasso di tempo indicato dalla natura. Proprio per questo, diventa urgente dimostrare che non è in gioco la sua virilità. Che la colpa è solo della donna sterile che, come la cavalla nella stalla del padre, non è in grado di restare incinta, nonostante lo stallone che ha al suo fianco.

Così, noncurante di aver lasciato in paese una vedova bianca di diciassette anni o poco più, tra una pausa e l’altra nella fabbrica di arepas[3] di cui è titolare un suo paesano che non ha l’abitudine di intromettersi nella vita privata dei suoi dipendenti per quanto possa conoscerli, seduce Eloína, un’affascinante andina[4] molto più grande di lui, disinibita e disposta ad accettare le più ardite carezze d’amore. Prima nell’alberghetto sgangherato all’angolo, nei pressi del lavoro, poi nella baracca dove lei abita con i figli nel popoloso Barrio Carapita.

Maledetto il giorno in cui Eloína si presenta in fabbrica con il ventre gonfio! Tutti si rendono conto che l’ha fatta grossa l’italiano, e quanto sia difficile spuntarla con queste donne creole che attirano a sé come le calamite le schegge di metallo.

− Eccolo lì, senza scampo − commentano gli amici. − Un altro destinato a soccombere in questa terra prodiga, accogliente quando è serio lo sforzo per emergere, ma spietata con quelli che vanno in cerca di facili avventure o si abbandonano tra le gonne maliarde di zambe o di mulatte che come esperte ammaliatrici di serpenti incantano gli spiriti più deboli, inducendoli nelle tentazioni dei demoni, semre in agguato.

Per evitare le critiche dei compagni, Domenico, senza alcun preavviso, abbandona il posto di lavoro e anche la pensione do-ve alloggiava con il fratello ed altri amici. A quello stesso indirizzo, continuano ad arrivare le lettere di Carmela, sempre meno assidue, rincuorata, se non altro, dalle notizie che il fratello le invia, in cui rassicura lei e il resto della famiglia, che non è morto, che solo si è perduto nei meandri del vizio da cui è difficile uscire, perché il fumo del forno acceso notte e giorno acceca gli occhi e offusca la ragione, impedendogli di ritrovare la retta via smarrita. Insomma, si tratta di un nuovo caso del tropico tentatore che inghiotte nelle sue fauci, senza pietà, i più fragili, vinti dall’arte dell’adulazione di cui sono maestre insuperabili le donne di queste terre, sempre accese dalle fiamme ardenti come i camini fumanti nei giorni di gelo dell’inverno molisano.

La vita nel Barrio Carapita, i primi mesi, è terribile per l’immigrante che, per quanta miseria portasse nella sua bisaccia, non avrebbe mai potuto immaginare l’esistenza di scenari così vili come quelli che scorrono davanti ai suoi occhi attoniti. Le baracche fatiscenti con pareti di cartone e tetti in lamine di zinco, attaccate le une alle altre, fanno filtrare le confidenze di dentro e le intimità di cui solo lui s’accorge in un primo momento, poiché sono naturali per le persone che vi abitano. La promiscuità al primo posto: tutti insieme in uno spazio ristretto, buttati su materassi sporchi bambini, adolescenti e adulti. Da una parte, gemiti di piacere o di dolore, a seconda del caso. Dall’altra, mormorii, parolacce oscene e urla di tristezza. Pentole vuote accatastate in un angolo accanto al contenitore dell’acqua raccolta da qualche rivolo: per bere, per lavare i panni qualche volta, per insaponare le teste pidocchiose dei bambini abbandonati tutto il giorno tra gli insetti che ronzano intorno alla spazzatura sotto le narici di tutti, senza che a nessuno dia fastidio.

− Com’è possibile − si chiede Domenico − che questo accada nella generosa Venezuela, dove la gente proveniente da ogni parte del mondo sbarca attratta dall’oro nascosto nelle sue viscere? Se in breve tempo i miei paesani riescono ad uscire dal loro stato di povertà assoluta, arricchendosi taluni persino analfabeti, perché a questi, che non necessitano di fare le va-ligie, è vietato vivere in un minimo di decenza? Qualche conto qui non torna. Cosa mai sarà?

− È l’abulia, da una parte − echeggia una voce dai meandri oscuri del martellante inconscio. − E dall’altra, l’accontentarsi delle briciole raccolte senza sforzo alcuno. La stessa cosa che accade a te che vaghi come una pecorella rabbonita dietro i fantasmi malevoli responsabili del tuo offuscamento. Il trionfo è riservato a quelli che sanno dominare i propri istinti e non ai deboli di spirito destinati, immancabilmente, a soccombere.

Domenico, con un paio di tappi doppi nelle orecchie per non ascoltare la voce della coscienza, trascina la sua esistenza apatica nel Barrio Carapita, fino a quando, un giorno, un proiettile vagante di due bande rivali recide la sua vita priva di speranze. Nel frattempo, Carmela, la moglie, langue in casa dei suoceri sperimentando, sulla propria pelle tormentata, che non sempre “l’America”, come si diceva, è la soluzione a tutti i problemi esistenziali. Può essere, al contrario, un calvario senza rimedio se l’animo fragile cede di fronte agli agguati della mente o, peggio ancora, se si cade nelle trappole del piacere che in quel-le terre sono seminate dappertutto come le piante carnivore profumate per attirare i pecchioni incauti.


[1]Barrio Carapita è un quartiere malfamato situato nella Parrocchia di Antímano, ad ovest della città di Caracas.

[2] La Guaira è il principale porto del Venezuela situato a una trentina di chilometri da Caracas.

[3] Vedere Nota 3, Premessa.

[4] Abitante della Cordigliera delle Ande venezuelana, nell’occidente del paese, a cui appartengono gli stati Mérida, Trujillo (si legga truhiglio) e Táchira (si legga tàcira).

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