Non sono una grafomane, scrivo solo quando ho almeno uno straccio di idea in mente. Una volta che ce l’ho devo compiere ancora un sacco di rituali prima di sedermi e iniziare. Devo fare ordine nella mia testa e ordine nello spazio intorno a me. Insomma, prima di scrivere mi converto in una impresa di pulizie maniacali.
Questo mese non c’era ordine nella mia testa, era tutto confuso e il mio studio disordinato. Nessuno straccio a fare pulizia.
La tragedia di Valencia mi ha tolto le forze, sono rimasta chiusa in casa per cinque giorni, ossessionata dai telegiornali, frustrata di impotenza e rabbiosa per le responsabilità altrui (che peraltro non sembra si vogliano riconoscere).
Di solito mi diverto a scrivere e ironizzare sulla rubrica “Così simili, così diversi”, ma non avevo voglia né di divertirmi né di ironizzare. Completamente fuori rubrica, i valenciani e le valenciane non mi sembravano affatto diversi, solo simili che soffrivano e di cui ne intuivo la disperazione. Con empatia.
Quando sono arrivata a Madrid e ho studiato per il dottorato amavo questa parola, carica di connotazioni e di differenti livelli, su cui mi sono specializzata. Uso e abuso semplicistico sui social me l’hanno fatta odiare. Ma questo mese non avevo un altro termine.
Così come la parola resilienza, Dio quanto la odio ormai! Eppure tanti anni fa mi era parsa bellissima, così mutuata dalla fisica.
Ecco, spero che la popolazione di Valencia sia resiliente. Non ho un termine migliore neanche in questo caso.
Al quinto giorno di confusione sono uscita a fare una passeggiata per il mio barrio, che per fortuna è ancora mediamente popolare e si salva dalla gentrificazione (¿hasta a cuando?)
Sono andata a salutare le mie fonti di informazioni per gli articoli: la calzolaia, la parrucchiera, il fruttivendolo pakistano (è un quartiere multietnico, per fortuna), la vecchietta gitana che chiede l’elemosina all’angolo.
Proprio lei mi ha fermato mentre camminavo impensierita. Volevo darle qualcosa, come fa di solito mia figlia che conosce tutti i più bisognosi al mondo, ma lei mi ha indicato il maglione che avevo addosso dicendomi que tenía frío.
Mi sono spogliata e sono rimasta in canottiera al sole di novembre. Ho pensato che per parlare e sorridere di come siamo così diversi con gli spagnoli, nel vestirci e svestirci, c’è sempre tempo, ma nel mentre mi sono sentita un po’ come San Martino quando cede il suo mantello. E ho acquietato per un attimo la mia coscienza che fremeva ancora di rabbia e di impotenza.