La crisi causata dal COVID-19 ha comportato una interruzione delle entrate economiche soprattutto per coloro che svolgono attività commerciale o turistica, i quali per lo svolgimento dell’attività pagano l’affitto di negozi o immobili adibiti a case vacanze o B&B. Ciò a causa della chiusura temporanea delle attività commerciali o dall’annullamento delle prenotazioni in ambito turistico.
Non sono mancati casi in cui le diverse associazioni di categoria o le camere di commercio, con un comportamento non sempre univoco, hanno suggerito ai propri scritti di richiedere, talora, sospensioni dell’affitto, in altri casi il dimezzamento dei canoni locatizi, o anche le risoluzioni contrattuali per eccessiva onerosità della prestazione.
Nell’ordinamento italiano non esiste una norma che abbia previsto tale casistica e la disciplina di legge da seguire va dedotta dai rilievi offerti della giurisprudenza. La errata interpretazione delle norme può però determinare comportamenti dei contraenti che non sono conformi alla effettiva disciplina legislativa e che possono essere davvero controproducenti.
Si pensi, ad esempio, a chi chieda una risoluzione contrattuale e si veda notificato un atto giudiziario del proprietario dell’immobile che richieda ulteriori 12 mesi di affitto per l’immobile commerciale concesso in locazione, poiché non sono stati rispettati i termini per la c.d. disdetta del contratto (6 mesi per le locazioni abitative e 12 mesi per quelle commerciali). Per non parlare poi della perdita dell’avviamento commerciale, in caso di restituzione dell’immobile.
Non sono stati pochi i casi in cui alcuni conduttori di immobili commerciali, e non, hanno richiesto erroneamente la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità o della prestazione, determinata dai mancati incassi.
Per poter avere un quadro esatto della situazione occorre considerare, anzitutto, che il coronavirus, evento inatteso che ha coinvolto l’intero territorio italiano e gran parte di quello mondiale, è un evento temporaneo e transitorio, non definitivo, verificatosi durante la esecuzione di contratti.
Orbene, la giurisprudenza della Suprema Corte, sin dal 1982 con la sentenza n. 5496, aveva già sottolineato come la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, ai sensi dell’art. 1463 codice civile poteva invocarsi da entrambe le parti del rapporto obbligatorio, e si verificasse sia nel caso in cui fosse divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore sia quando fosse divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte (e tale impossibilità non fosse comunque imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla non fosse venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione).
Ma soprattutto la Corte di Cassazione, in tempo risalente, aveva già precisato che la prestazione potesse ritenersi oggettivamente impossibile in caso di perimento o smarrimento della cosa, incommerciabilità della cosa, (cfr. sentenza 3440 del 2006) offrendo la seguente interpretazione: l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, laddove consistente in un impedimento, assoluto ed oggettivo, a carattere definitivo, dà luogo alla risoluzione del contratto, ai sensi dell’art. 1463 c.c., mentre, ove si riferisca a fatti di natura temporanea, determina soltanto la sospensione (e quindi non la risoluzione) del contratto stesso e quindi del pagamento dei relativi canoni, e comunque, non oltre i limiti dell’interesse del creditore al conseguimento della prestazione.
Tale interpretazione discende dal fatto che il secondo comma dell’art.1256 del codice civile, nell’escludere che l’obbligazione si estingua nel caso di impossibilità temporanea della prestazione, è riferito al solo interesse del creditore alla prestazione e non anche all’interesse del debitore, il quale deve adempiere l’obbligazione indipendentemente da un suo diverso interesse economico alla prestazione differita.
Inoltre la exceptio non rite adimpleti contractus, ovvero l’eccezione di contratto non esattamente adempiuto, espressione del principio di autotutela dell’art. 1460 del codice civile è applicabile anche al rapporto locatizio e, in applicazione analogica dell’art. 1584 codice civile (rapporti locatizi), postula la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, da valutare non in rapporto alla rappresentazione soggettiva che le parti se ne facciano, ma in relazione alla oggettiva proporzione degli inadempimenti stessi, riguardata con riferimento all’intero equilibrio del contratto e alla buona fede, da accertare attraverso la comparazione dei comportamenti delle parti che, in modo imprescindibile, è riservata al giudice di merito (cfr. sentenza Cass. Civ. 24 luglio 2007, n. 16315).
Pertanto, deve ritenersi che l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, se consiste in un impedimento, assoluto ed oggettivo, a carattere definitivo, dà luogo alla risoluzione del contratto, ai sensi dell’art. 1463 c.c., mentre, se ha natura temporanea, determina soltanto la sospensione e non la risoluzione del contratto stesso, non oltre i limiti dell’interesse del creditore al conseguimento della prestazione.
Avv. Raffaele Mandato