La motosega

Ritratto di Fabián Soberón. (Silvia Albuixech, dicembre 2023)

Pubblichiamo un racconto del conosciuto scrittore, cineasta e docente argentino Fabián Soberón tradotto all’italiano dalle alunne del Corso di Conversazione on line, tenuto dall’insegnante Ana Lia Zamorano, dell’ Associazione “Il Tempo Ritrovato” (Monza-Milano).

Federica Biagini, Enrica Fila, Brenda Bartolomeo, Katia Erinaldi, Simona Batisti, Federica Arrigoni, Claudia Bucci, Magdalena Izdebska. Sara Ciscato


Accosto sul lato destro della stazione di servizio. Miracolosamente è vuota. Un paio di ore fa il vecchio Hasper mi ha confessato quello che già sapevo, che è malato, e sono rientrato a Naranjo esquina, mosso non tanto dal piacere quanto per l’urgenza.

Una ragazza mora e bassina si avvicina dal mio lato. Indossa una camicia azzurra , di quelle che fornisce l’azienda. Con il braccio sinistro si appoggia parzialmente al tetto della mia auto. L’altro braccio è più corto e quando lo alza noto che non ha la mano. Sorride e mi chiede quanto riempire. Le chiedo di fare il pieno. Si offre di lavarmi i vetri. Accetto. Usa l’unico braccio per muovere  quell’attrezzino che si usa per pulirli. Uno stridio fastidioso si sprigiona mentre la sua mano ondeggia sopra il mio vetro. 

 Alla fine mi chiede delle gomme. Le guarda e prima che dica qualcosa si offre di gonfiarle con l’attrezzatura  che sta lì accanto.

Le pago il pieno di benzina e sposto l’auto dove mi indica  con l’unica mano che ha. Parcheggio e scendo.  Mentre posiziona il tubo nella prima gomma le chiedo quando la stazione è aperta al pubblico. Non mi guarda . Lascia solo fluire l’aria attraverso il tubo. Mi avvicino al marciapiede e noto che indossa degli stivali invernali  nel mezzo  della soffocante calura estiva.  

Parlo del tempo. Lei passa con il tubo all’altra ruota. Vedo che fa forza con il braccio e che fa la giocoliera per collocare la punta del tubo nel pezzetto di cuoio della ruota. Le chiedo se mi raccomanda un ristorante. Mi dice che nel paese a quell’ora è aperto il negozio del “Chuña” e il bar di “Donna Vicenta”. Di fronte alla terza ruota, noto che lotta con il tubo come se fosse un serpente.  Sta diventando una tortura. Mi inginocchio e provo ad aiutarla. Mi dice che non ce n’è bisogno, che se la cava da sola.  

Per semplice curiosità, le chiedo che mi racconti del suo braccio.

Dice che è stato un incidente, una casualità, che però definisce un prima e un dopo.

Rimane in silenzio.

La guardo e le tolgo dolcemente il tubo dalle mani. Mi avvicino alla ruota che rimane e posiziono il mandrino. La ruota si gonfia lentamente. Controllo la spiaggia ed è ancora deserta, “non c’è nessuno”, dico.

– “a quest’ora non c’è mai nessuno”.

Faccio alcuni passi e constato che nemmeno all’interno del bar ci sono clienti. Si muove  soltanto l’uomo che sta dietro il bancone.

“Prenderò un caffè, ne ho bisogno prima di andare a fare quello che devo fare”.

Prende i soldi che le do e si dirige verso le pompe di benzina.

Dalla porta d’ingresso al bar, mi giro. Lei si appoggia a una delle pompe e guarda in alto. Gli uccelli silenziosi volano nel cielo. Dato che è girata non mi vede.

“Senti, ti invito a prendere un caffè.”

Si gira quando sente la mia voce ma non riesce a capire cosa ho detto.

“Come?”

“Ti offro un caffè,” dico alzando la voce.

Esita. Cammina verso di me.

“Sono in servizio”, dice.

“Lo so, ma non c’è nessuno.”

“E se arriva il capo?”

“Non verrà”, cerco di convincerla.

Entro e lascio che la porta automatica si chiuda da sola. Mi siedo. L’uomo dietro il bancone mi guarda, in silenzio. Lei entra dopo di me e si avvicina.

“Anche lei si sente solo?” Dice, all’improvviso.

Sorrido. L’uomo si avvicina e la guarda. Percepisco una complicità nei loro occhi. Lei  chiede un caffè ristretto. Io cambio idea e ordino del whisky. Lei mi dice che è presto per il whisky e le rispondo che  non è mai presto o tardi per la tristezza.

Abbassa la testa e poi si adagia sulla sedia.

“Zulma Paredes”, dice e allunga il braccio. Le do la mano.

“Molto lieto, Augusto Rodrigues”, dico. E sorrido.

“Non le do l’altra per ovvi motivi”, dice e lancia una risata amara.

“Zulma, non c’é bisogno che ti mortifichi”. 

Appena arriva il whisky, lo bevo d’un fiato. Lei segue i miei movimenti attentamente.

“Lei é di qui, vero?”, dice

“Me ne sono andato molto tempo fa” 

“Il paese é sempre uguale. Non é cambiato niente”.

Le chiedo di continuare a raccontare.  Schiocca la lingua e guarda verso il bancone. L’uomo la guarda e le fa un cenno con la testa invitandola a parlare.

Mi racconta che era in casa, tranquilla con suo figlio di dieci anni e con il padre, che in quel momento viveva con loro.

Il padre aveva una motosega elettrica, una di quelle enormi che si vedono nei film.

Stava tagliando un albero del giardino. Lei  giocava a palla con il bambino.

Il ragazzino uscì di corsa, cadde ai piedi dell’albero e  un sasso  lo colpì alla testa. Rimase disteso a terra intontito,  quasi privo di sensi. Il padre aveva dei paraorecchi spessi, di quelli che si usano per trivellare il cemento in strada. Quando Zulma vide che l’uomo stava muovendo la sega senza accorgersi che il figlio era a terra incosciente, corse e si   gettò su di lui  con l’intenzione di proteggerne il corpo indifeso. Il padre senza sentire si voltò bruscamente, e la sega, ancora in movimento, tagliò il braccio di Zulma. Il sangue sgorgò in un modo impressionante e lei urlò come una capra. Il  figlio svenne dallo spavento e  fu  portato in ospedale.

Lei dice che vede ancora il sangue che scorre come un fiume, il sangue sulla pelle che pendeva come un pezzo di plastica, e che continua a vedere la mano che perse nei giorni successivi.  Seguirono litigi interminabili, attacchi, gelosia, condivisione di colpe, rabbia e l’inevitabile divorzio. Adesso vive con suo figlio nella stessa casa.

 “Non ci sono più alberi ne motoseghe” asserì. Le dico che la sua storia assomiglia alla mia. Lei mi guarda stupita. “Lei è un cinico”, afferma  e guarda verso il bancone.   Le chiedo di non andare oltre, che le mie  ferite sono di altra natura, che il colpo mortale è dentro di me e anche se non si vede, la ferita è ancora lì, con il sangue invisibile che scorre come un fiume. 

Un’auto parcheggia sul piazzale. L’autista allunga il braccio e chiama dall’ interno.

Zulma si alza, fa un cenno con la mano e l’uomo dietro al bancone capisce il suo gesto.

“Devo andare”, dico.

Lei annuisce e varca la porta.

Esce  ed inizia a riempire il serbatoio dell’auto.   

Il cliente scende e si posiziona con il cellulare  dietro il veicolo.

Lei gli chiede di tenerlo d’occhio.

L’uomo esegue, controlla il distributore e guarda il suo braccio corto.

Lei  lo nasconde  dietro.

L’uomo cerca il braccio nascosto,in modo insistente, e ritorna al  volante.

Dice qualcosa al suo compagno che non riesco a sentire.

Di sicuro si fa beffa del braccio amputato.

Pago il conto e salgo in macchina.

Saluto Zulma e lei muove il braccio con la mano assente.

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