Il viaggio spirituale di Claudio Fiorentini

Claudio Fiorentini (a destra) con il poeta Eduardo Calvo.

di Franco Campegiani

Sono qui da mesi sulla mia scrivania. Due romanzi di Claudio Fiorentini, editi dalla romana Ensemble, cui finora non mi sono potuto dedicare. Non so come scusarmi con Claudio, ma lui è al corrente di certe mie problematiche e del resto alla mia età credo sia umano perdere colpi, anche se si è ancora vitali. C’è di buono che un libro non è merce consumistica, per lo meno così come noi lo intendiamo. Non è un prodotto usa e getta – non quelli di questo calibro, quanto meno – per cui in ogni luogo e tempo resta non solo lecito, ma addirittura doveroso parlarne. Presi i due libri tra le mani ho rimpianto di non averlo fatto prima.

Quella di Fiorentini è narrativa di qualità, scritta come suol dirsi in punta di penna, con agilità ed eleganza condite da sottile e spiritosa ironia, il tutto sostenuto da contenuti di alto livello, distanti anni luce dal minimalismo culturale di tanta odierna e insulsa narrativa. Concerto a Vanagloria, il primo dei due lavori, è la storia di Ted, un editore in crisi esistenziale, stanco di bocciare per partito preso la pubblicazione di qualsiasi testo di valore, preferendo fare spazio al pattume e all’insignificanza, ligio ai vigenti assetti sociali e culturali. Perfino ad Elmer, scrittore di chiara fama, suo pingue amico, rifiuta la pubblicazione di un capolavoro dove si parla di un’organizzazione clandestina tesa a sabotare il commercio di armi.

No, il commercio non si tocca. Non si può chiedere a un editore di attentare al sistema economico in cui opera e cerca di prosperare. Così, quando i nodi vengono al pettine e Ted non ne può più di mentire, anziché fare i conti con la propria coscienza e cambiare modello editoriale, sceglie pavidamente la fuga e chiude con la sua editrice. L’intreccio narrativo è assai complesso ed intricato, come è nello stile collaudato ed apprezzato dell’autore, con scatti in avanti e indietro nel tempo e l’innesto di personaggi all’apparenza marginali, ma alla fine fondamentali nell’economia del testo.

 

Non toglierò la sorpresa ai lettori, riassumendone la trama, avvincente dalla prima all’ultima riga, e mi limiterò a riflettere sul pensiero centrale, molto profondo, che il libro propone. <La questione divina va messa da parte>, così fa dire l’autore ad uno dei protagonisti, perché, aggiunge, <noi, da uomini che siamo, navighiamo nei limiti dettati dalla nostra natura e ben poco possiamo capire di ciò che ci sovrasta, ammesso che esista>. Questo il pensiero centrale del libro, spezzato e ripreso più volte con sapiente dosaggio narrativo.

<Ciò che si muove, che formicola, che si accalca, che stanzia nel mondo, è la vita>. Così noi, tragicamente assaliti dal caos, dal movimento, dalle perdite, dalle mutazioni, cerchiamo vanamente di bloccare il tempo, restando <condannati a un perenne inseguimento del presente> (che è come dire dell’assoluto, del divino) senza poterlo raggiungere mai. Forse occorrerebbe <tornare bambini, o anche regredire a livello animale, o lasciarsi andare alla follia… Forse lo scopo della vita risiede proprio nella ricerca dell’ormai persa simultaneità, già perché le sovrastrutture rallentano la percezione e denudarsi dalla razionalità è forse l’unica via per essere in sintonia con il presente e per riuscire a essere vivi fino in fondo. E felici, fino in fondo>.

Una via, questa, ovviamente impercorribile, che comporterebbe di chiudersi in un limbo memoriale, fuori dalla vita reale. Ma non meno illusorio è rifugiarsi nelle speranze di un utopico futuro, di un sogno impossibile, pur di evitare l’impatto con la propria coscienza che pretende di vivere hic et nunc nel mondo reale. Ted preferisce cambiar vita sostituendo le carte in tavola, pur di sfuggire al compito di fare i conti con se stesso. E laddove dichiara di non essere mai stato un campagnolo (leggi una persona verace) e di sentire congeniali “il rumore, il disordine, la stranezza, la sporcizia, il dinamismo, la spocchia, il trambusto e l’assurdità della vita cittadina”, non bisogna credergli quando soggiunge che è esattamente in quel marasma, dove “tutto è giustificato”, che sente di doversi guardare allo specchio, “chiamato alle proprie responsabilità”.

Non si capisce infatti, dove tutto è giustificato, a cosa può servire sentirsi chiamati alle proprie responsabilità. E perché mai guardarsi allo specchio, se, come lui sostiene, <noi non siamo altro che un prodotto della storia> ed è a furia di procedere contro natura, che siamo diventati più intelligenti, più belli e meglio alimentati, quindi migliori? Il venditore ambulante non la pensa così. Poeta clandestino, coltiva un concetto rivoluzionario dell’arte: <Io credo che la poesia sia un rito di rinnovamento, e lei sa che nell’antichità i riti di rinnovamento portavano all’azzeramento del tempo”. E’ per questo, dichiara, che <la poesia è rivoluzionaria… il poeta un sovversivo>. Juliette, in effetti, suona la musica al contrario e così facendo mostra di tornare indietro nel tempo, verso le origini, verso il sogno di un mondo perduto, edenico, fatto di pace, rispetto, felicità.

Ted, all’opposto, crede nel divenire: il mondo migliore è quello che verrà, perché <quando il sogno esaurisce la sua funzione, non si può fare altro che cercare di viverne uno nuovo. A questo serviva la musica>. E aggiunge: <il mondo sarà sempre teatro delle peggiori perversioni e noi tutti ne prendiamo parte, ma lasciatemi sognare>. Sognare dunque per fuggire dalla realtà? No, per diventare migliore, l’uomo la deve smettere di fantasticare. I sogni vanno realizzati, non chiusi nel cassetto, altrimenti quel cassetto diviene un cumulo di illusioni che prima o poi esploderà. Per questo è importante guardarsi allo specchio: per far affiorare di tanto in tanto la coscienza dal groviglio inestricabile di menzogne in cui la gettiamo. Ed è a questo che serve l’arte.

L’arte è rinnovamento. E’ certamente sogno, ma è anche opera, realizzazione. E’ concretezza: quel fare che i Greci definivano poiein, da cui appunto poesia. Una nuova nominazione del mondo, un imprevedibile riaffiorare delle origini nel tempo. Origini non storiche, ma archetipiche. Non originarie, ma originanti. Ed è il momento creativo, mitopoietico per eccellenza, “il momento in cui realtà e letteratura coincidono”, scrive l’autore. Una ripartenza, prima che si torni nella consueta routine e si precipiti verso nuovi declini. Arte non come Artificio, ma come Verità. Momento sempre vivo e presente nel tempo, che non s’identifica tuttavia con la temporalità. Né con il prima, né con il poi, e neppure con l’attualità.

 

Nel secondo romanzo, Torri di pietra, la riflessione avviata in Concerto a Vanagloria viene ripresa e sviluppata in vicende di tutt’altro tipo, prendendo di mira con fine e graffiante ironia la cialtroneria che regna nell’ambiente esoterico, cosiddetto paranormale, dove sogni repressi, illusioni, raggiri ed inganni la fanno da padroni. La storia si apre con il barone Harper Barnaus, ladro, ex costumista di cinema, e la veggente Marta Debugging di cui è innamorato, e si fa subito intricata come non mai. Compare poi il giovane Jason Lamolfetta, un investigatore squattrinato sorpreso in una radura ai margini di un bosco, dove sorgono misteriose torri di pietra, dei minuti artefatti dall’aspetto di menhir o dolmen preistorici, costruiti da qualche ignoto artista che crede nell’arte secondo natura, ecologica, vitale e caduca a un tempo, al di fuori dei valori museali e statici attribuiti alla stessa, da tramandare nei secoli.

<La Natura, tra tutte le sue forme, aveva scelto la più bella per librarsi in volo e posarsi dolcemente sulla Terra. Ogni cosa, in quel piccolo slargo immerso in mezzo ai monti, emanava una quiete disarmante. Da cittadino di lungo corso, Jason Lamolfetta ammirava quel tripudio di meraviglia rimpiangendo di non essere un boscaiolo, un carbonaio o addirittura un animale selvatico, un uomo libero da condizionamenti, almeno per il tempo in cui si è lì, a vivere degli ingredienti che la provvidenza mette sulla strada>. Ma non era la civiltà, groviglio inestricabile di sovrastrutture, a nascere e crescere nell’intento di affrancare l’uomo dai condizionamenti della natura? Non erano le ideologie, anche laddove dichiarano di essere fedeli alla natura, ad irretirla in un garbuglio di regole e dogmi contro natura? Si potrebbe forse auspicare di ignorarla, la natura, di lasciarla al suo destino, ma a parte l’assurdità dell’assunto, non è certo la noncuranza a poterne migliorare il rapporto, bisogna accettarne la collaborazione.

La contessa Von Hugentrofer, “mecenate dell’occulto, spiritista e persona molto ammodo”, “affrontava il mistero con dignità e autorevolezza, non si lasciava certo intimidire da quella roba lì”. “Non era la vecchiaia a minare le sue forze, ma il dubbio”. Quel dubbio che, commenta l’autore, “divora le certezze trasformandole in fragilità”. Quel dubbio che libera dalle illusioni fideistiche, ma che rischia di diventare esso stesso un blocco psichico, laddove divenga aprioristico. Una mente equilibrata dubita di tutto, finanche del dubbio stesso. E’ dinamica, non statica, e non dà mai nulla per scontato, neppure il fatto che non possa mai darsi nulla per scontato. Sa che l’equilibrio è fluido, instabile, contraddittorio. Così, quando le torri di pietra rovinano al suolo, non dispera, non è indotta a credere che l’equilibrio sia svanito per sempre. Sa che esso ama porsi alla prova, attratto da sempre nuovi squilibri da equilibrare.

Ed ecco Santo dei Miracoli, un gradasso pasticcione “straordinariamente interessato alle donne”, così lo presenta l’autore. Vecchia conoscenza di Jason, gli confida di avere iniziato a frequentare i circoli esoterici spinto unicamente dalla voglia di rimorchiare. E gli racconta, divertito, di avere assistito ad una conferenza di un certo Prof. Von Hildeborg, “un pranotantrico di grande nomea, uomo di esuberante bruttezza e, dicono, un gay attratto dall’abito talare”. In quell’occasione aveva sentito parlare di Baldo Ulster, grande luminare, ma soprattutto era riuscito a rimorchiare Beata La Casta (quanta arguta ironia nella scelta dei nomi!). Jason, ignaro di quel mondo e al tempo stesso incuriosito, si pone ad indagare (anche su di un certo Igor Bustertemp, emulo di Ulster), fino a concludere, dalle scarne informazioni ottenute, che tutto poteva riassumersi <nelle manie tipiche della razza umana di attribuire a forze ultraterrene il motivo della propria esistenza>.

Da qui <il tanto proliferare di sette, religioni, superstizioni e credenze che riassumono la pavidità umana, perché solo così si è liberi da colpe e ci si può cimentare in simboliche lapidazioni. Gli altri sono i cattivi, noi siamo i buoni e abbiamo diritto a sbarazzarci dei cattivi>. In realtà, questo è il modo di pensare e di agire più meschino di cui sia capace l’essere umano, dimentico del fatto che le forze ultraterrene agiscono in lui e che è lui stesso (o dovrebbe essere) il latore delle celesti armonie, lui il cardine del divino nel mondo, lui l’artefice della fratellanza tra Caino e Abele. Figura chiave, quella di un vecchio escursionista incontrato da Jason nel bosco, il quale compare a più riprese nella narrazione, materializzandosi come per incanto in varie situazioni e rivelando infine la propria identità: Baldo Ulster in persona, trasformatosi in frate dopo avere rinunciato al mondo.

Due concomitanze contribuiscono a incentivare la curiosità di Jason. Innanzitutto, l’incontro con Eteria, la bibliotecaria a cui si rivolge per documentarsi, dalla cui sensualità rimane folgorato. In secondo luogo, l’incarico investigativo, ben remunerato, ricevuto da una sorta di gangster, un non identificato “uomo col cappello”, affinché indaghi su di un pericoloso anonimo personaggio, una sorta di nuovo sconosciuto messia che avrebbe potuto scardinare gli assetti del potere mondiale. La vicenda narrata è complicatissima, con colpi di scena d’ogni tipo, ed è impossibile seguirla in tutte le sue evoluzioni. C’è tuttavia un altro personaggio cui vale la pena accennare, il duca di Gustenhaus, chiassoso nobilcane e comicissima caricatura del mondo aristocratico, un cihuahua abituato ad abitare nella borsa della Contessa, bestiolina di cui Jason diverrà accompagnatore dopo essersene stato perfidamente morso durante un incontro esoterico mondano.

In quel convegno si parlava dell’origine extraterrestre degli umani, frutto di un clone di una civiltà aliena buttato sulla terra 300.000 anni fa: tesi sarcasticamente contestata da un atletico e agguerrito signore, Humphrey Bogart – uno dei geniali travestimenti del Barone Barnaus – destinato a divenire confidente intimo della Contessa. Dunque, due concezioni differenti della spiritualità. Da un lato quella in senso lato esoterica, sequestrata in tesi, idoli, dogmi e riti preconcetti; dall’altro quella del vecchio eremita, selvaggia ed anarchica, profondamente libera: <Ah, questa mania di attribuire significati occulti alle cose naturali… Secondo lei le forze del Cosmo si concentrano solo qui?… Il Cosmo non ha bisogno di piramidi. Il Cosmo è dappertutto>. Da un lato il feticcio che tenta di catturare lo spirito, dall’altro il simbolo che vuole farlo volare.

Per il vecchio eremita il mistero deve rimanere tale, mentre gli umani tentano sempre di profanarlo attribuendogli significati arbitrari. <La Verità è accessibile solo a chi non crede>. Credere infatti è possibile solo a chi si sente escluso dal Vero. Chi ci vive dentro non ha bisogno di crederci, per il semplice fatto che ne accetta il mistero. Come un albero, come un animale… Il mistero va vissuto, non teorizzato, e viverlo è l’unico modo per comprenderlo, perché se il mistero lo accetti, non è più mistero. La Contessa ricorda che secondo Igor (Bustertemp), suo antico fidanzato, non esiste un Dio così come tradizionalmente raffigurato, ma una sorta di coscienza universale dove confluiscono tutte le vite singole perdendo all’atto della morte la loro identità individuale. Punti di vista. A mio avviso, la vera identità viene raggiunta proprio nel piano universale, mentre nel piano esistenziale esiste solo smarrimento.

Seguendo le indicazioni di fra’ Baldo, la cricca guidata dal ladro ex costumista e trasformista, Barone Harper Barnaus, giunge infine all’abitazione dell’uomo portentoso e rivoluzionario che avrebbe avuto il potere di cambiare il mondo. Squallore, odore di minestra, luce un po’ moscia, e lui “un ometto dall’aspetto insignificante, con la pancia prominente”. Un incontro improntato alla massima semplicità, perché la verità è semplice ed è forse per questo che non viene creduta. Ci si sofferma, dice Fiorentini, su fenomeni manifesti, <dimenticando che la percezione viene da dentro. E’ dentro che succede>. Così, alla domanda di Eteria: <Perché Lei si nasconde? non potrebbe uscire allo scoperto?”, il nuovo ed eterno Messia risponde: <Avete visto quanti fanfaroni ci sono in giro?… meglio restar nascosti… In passato è successo che il Messaggio, proprio perché manifesto, fosse travisato… Ah, le parole, che pasticcio!…Meglio una vita schiva, meglio nascondersi, così tutti mi cercano e solo pochi mi trovano> al termine di un lungo e accidentato percorso.

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