La prova del coronavirus

La pandemia è arrivata in Venezuela. Ed ora bisogna prepararsi al peggiore degli scenari senza cedere in un eccessivo pessimismo ma con la dovuta prudenza e cautela. Sicuri che, come accaduto in altre circostanze, la nostra Collettività saprà reagire con decisione e senso della responsabilità.

Le proporzioni della pandemia, che ha colpito con particolare violenza prima Italia e Spagna, erano difficili da immaginare. Oggi si quantificano in vite umane. Al momento di scrivere questa nota, i contagiati, a livello mondiale, erano 227mila 743. I morti, 9318. Ma questi sono numeri che cambiano di ora in ora, di minuto in minuto.

Quando si conobbe il primo caso in Cina, e la successiva propagazione del virus nel colosso asiatico, a tutti sembrava distante. Irreale. Un fenomeno che non ci toccava. Oggi, l’epidemia, trasformatasi in pandemia, colpisce tutti paesi: dai più poveri ai più ricchi; dai più piccoli ai più grandi; dai meno popolosi ai più abitati.

La reazione in Italia e in Spagna, dopo lo sbandamento iniziale, è stata quella di circoscrivere il virus. In un primo momento chiudendo, come un lazzaretto, precise aree geografiche dichiarandole “zone rosse”; poi chiudendo scuole e università; successivamente decretando la serrata di luoghi pubblici: musei, cinema, teatro, stadi, ristoranti, bar, discoteche, negozi, piscine, palestre. Tutto. Ad eccezione di farmacie e generi alimentari. In ultimo, proibendo alla popolazione di scendere in strada se non per motivi eccezionali: acquisto di medicine e generi alimentari; passeggiata con le mascotte; accudire i genitori anziani.

Dopo i provvedimenti di carattere sociale, sono giunti quelli di indole economico. Il coronavirus ha stravolto la quotidianità di italiani e spagnoli, i due paesi più colpiti dal virus dopo la Cina. Se da un lato la popolazione ha riscoperto l’importanza del calore familiare, della conversazione, del gioco con i figli più piccoli, della lettura; dall’altro si è moltiplicata la paura di perdere il proprio posto di lavoro. E l’angoscia, se ciò dovesse accadere, di non poter continuare a pagare ipoteche, affitti e cambiali.

I governi di Conte e Sánchez, proprio per affrontare la crisi economica del Paese e quella delle famiglie, hanno annunciato lo stanziamento di enormi risorse monetarie. In Spagna, addirittura 200 miliardi di euro, pari al 20 per cento del Prodotto Interno Lordo. L’obiettivo, dotare gli ospedali e i centri di ricerca delle risorse necessarie, evitare il fallimento della piccola e media industria e soprattutto di quelle a conduzione familiare, scongiurare un’ondata di licenziamenti, l’esecuzione di ipoteche e sfratti.

Italia e Spagna, oggi, sono in grosso affanno. Il sistema sanitario pubblico dei due paesi, nonostante siano stati spesso oggetto di critiche, è tra i migliori. Ma non sono stati disegnati per affrontare emergenze come quella creatasi con il coronavirus. E così, negli ospedali cominciano a scarseggiare letti e i reparti di terapia intensiva sono già insufficienti. Il personale medico ed infermieristico, la prima linea nella lotta al virus, è allo stremo.

Il coronavirus sbarca in Venezuela in un momento particolarmente delicato. Il Paese nell’era democratica vantava una delle migliori sanità pubbliche e private dell’America Latina, con ospedali e cliniche all’avanguardia – leggasi Ospedale Domingo Luciani, Hospital de Clínicas Caracas o Centro Médico de Caracas – e medici eccellenti. Oggi, mentre le cliniche private stentano a mantenere la qualità del servizio, gli ospedali pubblici sono abbandonati al loro destino, preda del disinteresse, dell’improvvisazione e della corruzione. Gli ospedali non possono garantire un minimo di igiene e la loro infrastruttura risulta inadeguata e obsoleta. I migliori medici sono emigrati in quei paesi che ne apprezzano la professionalità e assicurano loro la qualità di vita a cui tutti aspiriamo. Dal canto loro medici “integrales”, di cui non dubitiamo la buona volontà e lo spirito di sacrificio, non hanno né l’esperienza né la capacità per far fronte alla pandemia. Per combattere il coronavirus è indispensabile l’igiene. Ma nel Paese l’acqua potabile arriva un giorno sì e tanti altri no.

La crisi economica, poi, contribuisce ad aggravare il panorama. La pandemia incontra il Paese allo stremo. Venti anni di crisi hanno lasciato una ferita nell’infrastruttura produttiva che tarderà anni a cicatrizzare. Sei anni consecutivi di profonda recessione accompagnata da una persistente iperinflazione hanno provocato l’erosione del potere d’acquisto della maggior parte delle famiglie venezuelane. Ne hanno distrutto la capacità di consumo. Le esportazioni del petrolio, dalle quali derivano i due terzi dei dollari che riceve il Paese, sono al minimo storico. E i prezzi del barile di greggio, negli ultimi giorni, hanno subito una contrazione di circa il 30 per cento. Non sembra che il governo, a cui il Fondo Monetario Internazionale ha negato un credito di 5 miliardi di dollari, possa continuare ad assicurare alimenti a prezzi “politici”, come ha fatto fino ad oggi, né a garantire agli ospedali le medicine di cui avrà bisogno con la propagazione del virus.

La quarantena, giustamente imposta dal governo, avrà sicuramente il suo impatto. Ma, come in Italia e Spagna, probabilmente non sarà sufficiente. Si avvicinano tempi assai difficili. La nostra comunità dovrà affrontare la sfida del coronavirus senza allarmismi, senza farsi eco delle tante “fake-news” che circolano nella web, ma neanche sottovalutando la gravità della situazione. Oggi più che mai dovrà mostrare la ponderatezza e lo spirito di solidarietà che sempre l’hanno accompagnata nei momenti di difficoltà.

Mauro Bafile