Stefano Albertini: “La lingua non è l’unico strumento di promozione della nostra cultura”

Il professore Stefano Albertini, direttore di Casa Italiana Zerilli-Marimò

Il professore Stefano Albertini, direttore di Casa Italiana Zerilli-Marimò

NEW YORK – La lingua italiana unico strumento per la diffusione della cultura italiana? Non proprio. Come abbiamo scritto in altre occasioni, pur essendo la lingua il veicolo per eccellenza per la divulgazione della nostra cultura, dell’arte e delle tradizioni, non è l’unico. Della stessa opinione è il Direttore di Casa Italiana Zerilli-Marimò, Stefano Albertini, che incontriamo nel suo ufficio, una sala che sarebbe amplia e spaziosa se non fosse per la quantità di libri che non solo colmano gli scaffali lungo le pareti, ma sono sparsi un po’ ovunque.

– Abbiamo molto chiaro – ci dice convinto – che cultura e lingua s’identificano e che parte del nostro lavoro sia anche quello di promuovere l’italiano come idioma. Ma – precisa immediatamente – sarebbe vivere fuori dal mondo se non fossimo coscienti che, specialmente negli Stati Uniti, bisogna tener conto di condizioni molto particolari. Ci troviamo di fronte ad una delle comunità italiane più numerose della diaspora iniziata alla fine dell’800 e che continua fino ai nostri giorni; una collettività che già alla sua seconda generazione aveva perso la lingua. Per questo – prosegue – se realizzassimo gli eventi solo in italiano, non saremmo in grado di raggiungerla tutta. Per noi sarebbe un grosso fallimento. La nostra missione, così come l’ha voluta la fondatrice – spiega -, è quella di portare la cultura italiana a chi la ama, la apprezza, a prescindere dalle proprie origini o dal fatto che conosca la lingua italiana. Non perdiamo occasione naturalmente per promuovere anche la diffusione della nostra lingua e, ogni qualvolta se ne presenti l’occasione, organizziamo eventi in italiano.

Sostiene, ad esempio, che se uno scrittore italiano, il cui libro non è stato tradotto in inglese, si trova a New York, “non c’è ragione per organizzare una conferenza in inglese invece che in italiano”.

– Ci si rivolge – commenta – a un pubblico che può leggere, o ha già letto il suo libro. Ma è evidente che se viene uno scrittore di molto successo in America, i cui libri sono stati tradotti in inglese come nel caso di Baricco, gli chiediamo di parlare in inglese. Il suo pubblico è anche americano; sono amanti della cultura che hanno letto le sue opere. Spesso, in questi casi, chiamiamo anche un traduttore. E’ bello e assai interessante anche il passaggio tra le due lingue. L’idea è di promuovere l’italiano ma deve essere chiaro che non siamo una scuola di lingue. Il nostro obiettivo va più in la. La nostra missione è molto più profonda e amplia.

– La nuova emigrazione, quella costituita dai ragazzi che oggi lasciano l’Italia, o i giovani nati qui di seconda o terza generazione, assistono alle vostre manifestazioni? Partecipano alle vostre iniziative?

– Comincerei col precisare che ogni categoria di eventi ha un suo pubblico – puntualizza -. Noi in genere sappiamo chi parteciperà a ognuno di essi. Addirittura ci immaginiamo i volti che incontreremo. Ad esempio, se organizziamo una serie di presentazioni di brani d’Opera, già immaginiamo la composizione demografica del pubblico. Si tratterà di persone con un’età più o meno alta. Non ci sarà una particolare presenza di italo-americani. Con questo voglio dire che sarà un pubblico misto. Per altre manifestazioni, invece, potrei attendermi giovani italiani di recente emigrazione o di permanenza provvisoria.

Sostiene che, ad esempio, una manifestazione dedicata al cibo e alla cucina “sicuramente attrarrà un pubblico femminile e prevalentemente italiano o italo-americano la cui età si aggirerà attorno ai 40 anni”; dal canto suo, un evento destinato alla moda “avrà anch’esso un pubblico femminile ma, in questo caso, prevalentemente americano”.
Julian Sachs, un giovane professore e “Program and Media Coordinator” di Casa Italiana Zerilli Marimò che fino ad ora aveva assistito in silenzio e in modo assai discreto alla conversazione con il professor Albertini, interviene per spiegare che “quando l’invitato è un cantante che ha partecipato al Festival di San Remo o, comunque, è di moda in Italia, alla nostra manifestazione assiste un gran numero di giovani”.

– Si – prende di nuovo la battuta il Direttore di “Casa Italiana” per precisare:

– Soprattutto giovani di emigrazione recente. Per quel che riguarda poi il cinema, se parliamo di neo-realismo o commedie italiane, il grosso pubblico sarà americano e l’età media sarà alta. Se invece si proiettano produzioni attuali, la fascia d’età tenderà ad abbassarsi drasticamente. In questo caso, il pubblico sarà prevalentemente italiano, costituito soprattutto da giovani arrivati di recente. Gli americani saranno pochi.

Sachs commenta che, in generale, le manifestazioni che hanno come centro d’interesse il mondo del celluloide tendono ad abbassare l’età del pubblico, anche trattandosi di opere legate al neorealismo.

– Insomma – commenta Albertini -, l’età e la caratteristica del pubblico cambiano di volta in volta. Dipendono dalla tipologia dell’evento. Gli italiani di recente emigrazione sono legati all’università e sono quelli che partecipano più numerosi a iniziative legate alla politica italiana, al cinema contemporaneo, alla musica moderna…

– La nuova ondata d’italiani, giusto per identificarli in qualche modo – spiega Sachs – ha creato alcuni gruppi. Se per loro la nostra manifestazione ha un richiamo, se desta qualche interesse, vengono in massa.

– Quando parla di gruppi, si riferisce al fenomeno di ghettizzazione volontaria che ha caratterizzato l’emigrazione del passato, specialmente in quei paesi in cui la comunicazione, per via della lingua, era assai difficile e l’integrazione, un fenomeno ancor più complesso?

– Una via di mezzo – taglia corto Sachs -. Oggi la lingua non è più un ostacolo. La stragrande maggioranza dei giovani viene a frequentare l’Università. Quando parlavo di gruppi, intendevo giovani uniti da uno stesso interesse. C’è chi viene per studiare cinema, chi invece cerca d’inserirsi nel mondo della moda o del design. Ognuno di essi frequenta ambienti particolari. Da qui la tendenza a fare gruppo.

New York è una città iper-attiva. Gente che viene e gente che va, sempre con un gran da fare. L’attività culturale è molto intensa in ogni settore. E voler essere presenti ad ogni manifestazione culturale è umanamente impossibile. Lo è, ancora oggi a Caracas, sebbene la crisi economica e l’insicurezza abbiano castigato severamente il mondo della cultura che, fino a 15, 20 anni fa, era frizzante, irrequieto, all’avanguardia e offriva un ventaglio di manifestazioni che nulla avevano da invidiare alle grandi capitali del mondo; figuriamoci in una metropoli che, con ragione, si considera il “centro del mondo”. Anche in seno alla nostra comunità di New York, le manifestazioni si accavallano e si susseguono a ritmo incalzante.

– Sebbene Casa Italiana Zerilli-Marimò sia una delle istituzioni più attive della nostra Collettività, non è l’unica. Ve ne sono altre ugualmente importanti. Come fate a evitare che le manifestazioni che organizza ognuna di esse possano coincidere?

Sorride. Lo sguardo di Albertini incontra quello di Sachs. Quindi ci dice:

– E’ il prezzo che paga chi fa cultura in una città come New York. Non siamo soli. E’ questa, a mio avviso, una grande ricchezza. Ho sempre interpretato in questo modo, in maniera assai costruttiva la presenza attiva dei miei colleghi e delle altre istituzioni.

– Si, immagino che sia molto stimolante…

– Lo è… molto – conferma. – E poi – aggiunge, – man mano che passano gli anni le nostre missioni, le caratteristiche di ognuna si consolidano.

Commenta che a New York, ogni sera, nell’ambito della nostra collettività si organizzano “tre quattro e anche cinque avvenimenti culturali”. Tutte, possiamo darne credito, di grande spessore.

– Sono eventi organizzati dalle istituzioni italiane e italo-americane che operano a New York – aggiunge -. C’è l’Italian Accademy della Columbia University, meno presente forse nell’ambito delle manifestazioni ma certamente molto attiva nel settore della ricerca e nella produzione accademica; c’è il Calandra – Italian American Istitute e c’è il Centro Levi, che si occupa essenzialmente di temi inerenti all’ebraismo italiano, per nominarne solo alcune. Tra tutte queste, devo dire che è l’Istituto Italiano di Cultura quello con cui abbiamo rapporti più frequenti.

Ammette, comunque, che spesso avvenimenti organizzati da “Casa Italiana” e l’Istituto Italiano di Cultura coincidono irrimediabilmente. D’altronde, come tiene a sottolineare, sia l’istituto che dirige sia l’Istituto Italiano di Cultura organizzano eventi quasi ogni sera. Assicura che si è stabilito un ottimo rapporto con il dottor Giorgio Van Straten, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura. Ciò permette di organizzare assieme alcuni incontri e, in ogni caso e, nel limite del possibile, di non far coincidere manifestazioni simili o assai importanti.

– Tra noi esiste un ottimo rapporto – sostiene –. Ci incontriamo due o tre volte l’anno, in maniera molto informale per scambiare idee su progetti in elaborazione. Analizziamo insieme i rispettivi calendari delle attività, li controlliamo, li commentiamo. Evitiamo sovrapposizioni eclatanti e cerchiamo di individuare momenti chiave di collaborazione che possono svolgersi qui, in Casa Italiana, o presso la sede dell’Istituto Italiano di Cultura.

Ricorda che il dottor Van Straten era appena arrivato quando una sera coincisero due manifestazioni d’Opera, con l’orchestra nell’Istituto Italiano di Cultura, e con una cantante in Casa Italiana.

– Una cosa assurda – ammette senza difficoltà -. Non dico che non si possa coincidere. Accade. Ma se si fa un evento di Opera italiana nell’Istituto Italiano di Cultura non credo proprio che sia il caso di organizzarne uno simile in Casa Italiana. Ciò vorrebbe dire sottrarsi pubblico perché, tutto sommato, si tratta dello stesso pubblico, di persone che amano la nostra cultura.

– L’attuale direttore del nostro Istituto è un uomo di profonda cultura, scrittore, traduttore, autore di testi per musica e per teatro musicale…

– Assolutamente – ci interrompe -. Ed è un uomo portato alla partecipazione che, come noi d’altronde, non ha bisogno di personalismi. Abbiamo una missione e una passione che ci accomuna e ci entusiasma. E’ questa la ragione di fondo della nostra stretta collaborazione.

Stefano Albertini non è solo il Direttore di Casa Italiana Zerilli-Marimò, è anche docente di una delle università private più prestigiose della Grande Mela; un uomo, quindi, non solo a contatto con il pubblico che frequenta l’autorevole istituto italo-americano ma anche con giovani studenti, con i quali condivide irrequietezza, curiosità, avido desiderio di conoscenza. E’ per questo che chiediamo:

– Qual è la reazione dei giovani, sia italiani sia americani, di fronte alla cultura italiana? Quale la loro risposta?

Il volto di Albertini s’illumina. Non è più il direttore di Casa Italiana, una delle istituzioni più dinamiche della nostra Collettività, ma il docente innamorato del proprio lavoro.

– Ho la fortuna – ci dice con malcelato entusiasmo – di fare un lavoro bellissimo. La direzione di Casa Italiana Zerilli-Marimò è senz’altro una responsabilità che appassiona. Non è mai noiosa, ogni giorno regala sorprese. Mi obbliga ad essere aggiornato su tutto quanto avviene in Italia e in America. Devo tener conto che non sono un piazzista di libri in un deserto. Propongo una cultura millenaria, in tutti i suoi aspetti, in un paese che oggi ha una cultura egemonica. Questo è l’aspetto straordinario del mio lavoro che mi permette di conoscere tutti i protagonisti della vita culturale italiana, scrittori, registi, cantanti, musicisti, compositori, fotografi… Però… – si sofferma un attimo riflessivo – l’aspetto più bello del mio lavoro è la docenza. Sono innamorato del mio lavoro di insegnante. La docenza mi gratifica, mi appassiona. Entro in aula e sono contento d’esserci. Chiaro, nelle manifestazioni che organizzo come Direttore di Casa Italiana incontro tanta gente… ma non è lo stesso. Quando do lezione, quando ascolto gli alunni, quando parlo con loro… Imparo moltissimo, mi aiutano a capire come evolve il mondo.

In altre parole, non si perde il contatto con la realtà, pericolo che si corre quando ci si chiude in un ufficio preoccupati di organizzare eventi, concentrati nel proprio lavoro, estranei a tutto quanto accade attorno a noi.

– I suoi studenti sono italiani o italo-americani? Come vedono l’Italia, la sua cultura?

– I miei corsi sono frequentati da studenti che non hanno nessuna relazione con l’Italia – ci spiega. – Spessissimo è il loro primo approccio con la cultura italiana. Quindi sento ancor più la responsabilità della docenza. E’ l’occasione per convincerli a proseguire, a continuare a studiare la cultura italiana. I giovani – sottolinea – sono curiosi per natura. E’ mia responsabilità mantenere viva questa curiosità.

Commenta che recentemente ha svolto un corso su Machiavelli; un percorso didattico non solo per far capire l’importanza delle idee dello storico, del filosofo, dello scrittore fiorentino autore del “Principe” ma, soprattutto, per trasmettere il fascino del rinascimento italiano, la profondità e la complessità di un’epoca.

– All’inizio – spiega – si iscrivono per curiosità. Il personaggio desta interesse per tanti motivi che vanno dalla cultura popolare ai video-giochi in cui Machiavelli è protagonista. Insomma, arrivano in aula per motivi diversissimi. Durante il corso cerco di convincerli che, qualunque sia il motivo per cui si sono iscritti, vale la pena conoscere meglio la cultura italiana per la sua ricchezza straordinaria, la sua varietà. Non dico che – ammette con umiltà – ci riesca sempre; ma posso affermare che la risposta, in termini generali, è sempre molto buona. Alla fine mi rendo conto che ho un prodotto che, tutto sommato, non è difficile da promuovere se viene presentato bene, nella maniera giusta.

– Molti giovani pensano di frequentare l’università negli States. Cosa consiglia loro?

– La prima cosa che, credo, sia bene sapere è che l’università americana è molto costosa – osserva. – Insomma, richiede un impegno finanziario molto importante da parte delle famiglie. Al contrario degli studenti americani, che ricevono borse di studio, riduzioni nella retta e che possono usufruire di strumenti di assistenza economica; lo studente straniero non ha diritto a nessuna forma di aiuto economico. Se una università costa, ad esempio, 60mila dollari l’anno, non c’è verso per uno straniero di ridurre quella cifra. Per cui, direi di pensarci bene dal punto di vista economico. Ma anche se le famiglie fossero in grado di affrontare la spesa senza problemi, direi di valutare bene se ne vale realmente la pena.

Albertini, sull’argomento, è molto chiaro. Ritiene che anche in Italia vi siano ottime Università il cui spessore accademico non ha nulla da invidiare a quelle americane.

– Ci sono ottime strutture e professori eccellenti – prosegue -. E poi c’è il “Programma Erasmus” che permette agli studenti di recarsi in altri paesi dell’Europa a studiare.

Insiste, quindi, nel sottolineare che frequentare una buona università italiana non solo offre un risparmio considerevole ma permette allo studente anche un’ottima formazione accademica.

– Forse mi licenzieranno per dire questo – afferma in tono tra l’ironico e il divertito, – ma è mio dovere farlo. Questo per quanto riguarda il livello “graduate”. Il mio consiglio è completamente all’opposto se parliamo del “dottorato di ricerca”. Direi che per chi è appassionato allo studio e alla ricerca un Phd negli Stati uniti è impagabile in quanto formazione e accessibile in termini economici.

Spiega che la regola che non permetteva ai giovani studenti stranieri l’accesso a “borse di studio”, finanziamenti e aiuti economici scompare nel caso di coloro che, ottenuta la laurea universitaria, decidono di specializzarsi. Sottolinea che gli Stati Uniti sono particolarmente generosi verso gli studenti che desiderano studiare un Phd in fisica, ingegneria, letteratura o in qualunque altra disciplina. Precisa, poi, che mentre in Italia decidere di frequentare un “dottorato” vuol dire “affrontare una laurea da soli” e con le proprie forze, nelle università nordamericane il percorso dottorale prevede un progetto di formazione ordinato, con corsi, seminari ed esperienze d’insegnamento che aiutano a preparare il lavoro accademico.

– Il dottorato – assicura – è strutturato in maniera organica. Negli Stati uniti c’è una lunga tradizione, in Italia, purtroppo, no.

Non poteva mancare, ovviamente da parte nostra, un riferimento ai giovani italo-venezuelani in procinto di lasciare il Paese per affrontare l’esperienza universitaria. Probabilmente per molti sarà anche l’inizio di una vita da emigranti, come lo fu quella dei loro genitori. Anche in questa occasione, Albertini è molto onesto e chiaro.

– Direi di prendere veramente in considerazione di frequentare un’università in Italia e non negli Stati Uniti – consiglia. – Tra l’altro, alcune università come il Politecnico di Milano, offrono corsi interamente in inglese; per cui chi domina l’inglese vi si può iscrivere. Il Politecnico di Milano, quello di Torino e altre università occupano anche un’ottima posizione nelle classifiche mondiali per struttura e qualità d’insegnamento. Queste lauree in inglese – prosegue – sono tenute in alta considerazione dalle università negli Stati Uniti. Al di la del costo delle università nordamericane, credo che sia utile porsi una domanda: vale la pena spendere tanti soldi per un percorso formativo universitario quando si può ottenere lo stesso risultato in un’università altrettanto esigente ma molto più economica in Italia?

Albertini parla speditamente. Qualche pausa qua e là, qualche frase particolarmente sottolineata per accentuarne il significato, qualche silenzio che vale più di mille parole. Si esprime con la stessa chiarezza con cui si rivolge agli alunni durante le ore di lezione. Conclude con un ultimo consiglio:

– Il grande problema per chi vuole costruirsi una vita negli Stati Uniti è lo “status” migratorio. La legislazione nordamericana, su quest’ argomento, è particolarmente severa. Tutti pensano negli Stati uniti come il Paese della grande emigrazione; nel paese dalle porte aperte. È bene sapere che non è più così. Proprio perché per anni è stato un paese mecca per emigranti, oggi le procedure per regolarizzare la propria situazione sono particolarmente difficili, complesse, lunghe e costose. Il primo consiglio che mi sento di dare e sento ripetere dai miei amici fino alla nausea è: non violate la legge migratoria americana. Se si entra negli Stati Uniti con un visto, anche europeo che prevede una permanenza di tre mesi, non si commetta la sciocchezza di restare di più. Non importa un mese, quindici giorni, una settimana o un solo giorno. La polizia non vi andrà a cercare. Potrete stare tranquilli che non accadrà nulla. Poi, però, quando si uscirà dal paese e si cercherà di tornarvi vi sarà negato l’accesso. E sarà molto difficile sanare la situazione. Molti ragazzi commettono questa leggerezza e poi se ne pentono; è una leggerezza che preclude, a volte per sempre, la possibilità tornare.

CASA ITALIANA ZERILLI-MARINÒ

La sede di Casa Italiana Zerilli-Marimó

Non sempre è stato rosa e fiori. L’insegnamento dell’italiano, nella New York University, non ha sempre avuto lo “status” attuale. Come afferma Albertini, “era quasi invisibile e irrilevante, fino agli inizi degli anni ’90” del secolo scorso.
– Dall’essere considerato l’ultima disciplina dell’Università, l’insegnamento dell’italiano è diventato ora di primissimo piano – ci dice con mal celato orgoglio e soddisfazione -. Ma questo non sarebbe stato possibile se non ci fossero stati due fatti rilevanti: prima la creazione, grazie alla baronessa Zerilli-Marimò, di Casa Italiana a New York, il cui scopo fu non solo di dare una sede al Dipartimento d’Italiano per renderlo indipendente e non più subalterno a quello Francese, ma anche di creare un centro di promozione della cultura italiana; poi la donazione all’Università di “Villa La Pietra” a Firenze, di 57 acri che erano proprietà di Sir Harold Acton. Questi due avvenimenti hanno segnato una svolta importante per il Dipartimento d’italiano della New York University. Oggi abbiamo circa 400 nostri studenti a Firenze. Quando torneranno, saranno il nostro bacino naturale, il bacino di utenza del nostro Dipartimento.

Il professore Stefano Albertini con la baronessa Zerilli-Marimò

Spiega che prima dell’iniziativa della baronessa Zerilli-Marimò e della donazione di sir Harold Acton, la cattedra d’italiano, in seno all’Università, era la “cenerentola”.

– Oggi – spiega Albertini -, il nostro è un vero e proprio Dipartimento di “Italian Lenguage”, con un approccio di 360 gradi sulla cultura italiana. Molte università americane hanno un loro Dipartimento di “Italian Study”, poi però risulta che vi sono appena due professori di letteratura italiana che magari fanno sul corso di cinema o sul teatro. Il nostro no. Abbiamo una professoressa di storia, uno storico dell’arte, un filosofo delle idee e del costume e così via.

Afferma che il contributo privato alle università è un fatto normale e che solitamente, si manifesta attraverso finanziamenti.

La baronessa Mariuccia Zerilli-Marimò

– Nel nostro caso il supporto dei privati è avvenuto sotto forma di donazioni – conclude, – Probabilmente l’Università sola non sarebbe mai arrivata ad investire così tanto negli studi d’italiano. Una volta che le risorse sono state rese disponibili si è realizzato il miracolo. Oggi possiamo affermare che l’italiano è senz’altro una disciplina osservata con molta attenzione con stima e simpatia da parte dei colleghi. Non siamo più una disciplina marginale.
Mauro Bafile

Lascia un commento