L’arrivo


Sono atterrata in Spagna il 28 dicembre di ventotto anni fa, il giorno dei Santi Innocenti, l’equivalente del nostro primo aprile. Ma questo lo avrei scoperto molto tempo dopo. Lo storico consorte – divenuto legittimo vent’anni dopo – non si era di certo preso la briga di dirmelo, preoccupato com’era dalle presentazioni che avrebbe dovuto fare:

“Eccola qua! La benemerita sconosciuta della quale non vi ho parlato perché nemmeno ne ho avuto il tempo. Catapultata dalla Sardegna, già incinta di tre mesi, già coniugata, già separata, appena appena più grande di me”. 

Insomma, non proprio un ingresso trionfale. Quasi uno scherzo innocente. Inaspettato per tutti, oltre che per noi due. 

Atterravo in suolo iberico senza pregiudizi e stereotipi, il mio lavoro di professoressa di filosofia e scienze umane sapeva contenerli e smontarli tutti, o quasi. Ma sicuramente ero carica di aspettative e sotto tempesta ormonale.

Mi avevano riempito la testa a botte di codice genetico: gli spagnoli erano come gli italiani. Di più, erano come noi.

Noi chi?

Noi sardi, ovviamente. In effetti, quattrocento anni di dominazione spagnola davano da pensare. Inoltre, mi accasavo proprio con uno storico aragonese e non avrei avuto nulla di cui preoccuparmi con tanto DNA in comune. Erano i nostri cugini! Primos y primas che mi aspettavano a braccia aperte. Sangue del mio sangue, carne della mia carne. Di primo grado per giunta, in quanto sarda.

 

 

Ho incominciato a intravedere il problema già dai nomi. Alla presentazione di Andrea e Rosario cercavo di individuare due uomini ma avevo davanti due donne. La Spagna di ventotto anni fa era già anni luce per alcune cosette, ma il concetto di fluidità di genere era ancora in divenire e da venire.

Ho intuito per miracolo che stringere la mano sarebbe stato assolutamente fuori luogo, e le ho praticamente baciate in bocca senza sapere di dover porgere l’altra guancia, ossia quella opposta.

Poi è arrivato il mio turno. Io mi chiamo ufficialmente Elisabetta, ma sono stata abituata a tutti i diminutivi possibili, contestualizzati nel corso della mia caduca esistenza e a seconda del rapporto con l’interlocutore: Betti, Lisa, Elisa, Betta, sino al brevissimo e facilissimo Eli con “i” o “i griega”. 

Mi sembrava semplice, perfino modesto. Ma tra l’emozione, la nausea da gravidanza, le luminarie natalizie ho sentito quello che mai avrei pensato di sentire: Isabelita!!! Certo, simile foneticamente ma non proprio la stessa cosa.

Al vezzeggiativo successivo, “reina” , che gli spagnoli usano molto, come avrei scoperto in seguito, ho avuto il primo tracollo. Un guizzo monarchico e cattolico mi ha attraversato come un fulmine dalla testa ai piedi: ero diventata “Isabelita, mi Reina!” Ci mancava solo che lo storico consorte si chiamasse Ferdinando.

Insomma, si cominciava confusamente la vita in Spagna con problemi a partire dallo stesso nome, che i miei stessi cugini e cugine pronunciavano in maniera approssimativa.  

E quindi? Cosa si poteva fare? Avrei chiamato in soccorso la filosofia per gli anni a venire. Per una vita fatta di somiglianze e differenze in un paese tanto amato.

Non saremmo stati monadi, sicuramente. Troppe  porte e finestre aperte. Neanche radici empedoclee, così diverse tra loro.

Omeomerie forse? Parti simili al tutto?

Sono passati ventotto anni e ci rifletto ancora sopra: così simili, così diversi.

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