Il caos del mondo in America Latina: politica, violenza, informazione negata

Daniel Noboa in una foto d'archivio.

“Siamo tutti sulla stessa barca”: più che un modo di dire quest’affermazione potrebbe sembrare una pigrizia mentale, una rozza coazione a ripetere. Invece la realtà conferma che la continua erosione di un tessuto sociale logorato ogni giorno dalle sue disuguaglianze storiche, lesiona non solo le istituzioni nazionali, le funzioni della democrazia: alla lunga incrina anche convenzioni fondamentali per i pacifici rapporti tra paesi diversi e li espone a danni imprevedibili.

E’ l’esito fragoroso dell’invasione militare dell’ambasciata del Messico nella capitale dell’Equador, Quito, la settimana scorsa. Decisa dal presidente Daniel Noboa pur di arrestare l’ex vicepresidente del predecessore che vi aveva trovato rifugio. Jorge Glas, populista di sinistra con Rafael Correa, sperava di ottenere l’estradizione, per lui richiesta personalmente dal presidente messicano, Andrès Manuel Lopez Obrador; e sfuggire così al carcere per corruzione comminatogli dalla giustizia atzeca. La violazione dell’extra-territorialità dell’ambasciata (non riconosciuta dottrinariamente da tutti, ma di fatto universalmente rispettata) non ha precedenti in America Latina.

La condanna è unanime. Il Messico, però, non si conforma con riconoscimenti protocollari, pretende che la riprovazione per quei commandos che hanno assalito a mano armata l’Ambasciata e vilipeso anche fisicamente i suoi diplomatici trovi le forme giuridiche di una concreta punizione. La vertenza è quindi destinata a scavare nelle non poche diversità della variegata pur se mai sopita aspirazione all’unità regionale dei 21 paesi di cultura latina tra la Patagonia e i Caraibi; fino a inasprirne inevitabilmente le inimicizie latenti oltre a quelle già manifeste in quest’epoca d’identità nazionali tanto confuse quanto competitive.

Fondata o no, l’accusa di corruzione come arma politica per eliminare un avversario non è nuova, né costituisce una prerogativa esclusivamente latinoamericana. Oltre a incrociare interessi non sempre chiaramente visibili. Richiamando l’attenzione sui ruoli di garanzia svolti dai diversi poteri dello stato autenticamente repubblicano e più che mai dalla libera informazione. 

Di quest’ultima, anche per ampliare il paradigma latinoamericano, è un esempio d’attualità il peruviano Gustavo Gorriti. A 75 anni (insidiato da un cancro), rimane tra i più attivi e noti giornalisti investigativi dell’intero continente, tenendo conto delle sue frequenti collaborazioni con il New York Times e il Toronto Star. Non casualmente, l’ho incontrato per la prima volta in un bar di El Callao, in una delle lunghe e inquiete notti oscure degli anni in cui l’allora presidente Fujimori e il suo perverso capo dei servizi segreti, Vladimir Montesinos, combattevano con il terrorismo di stato la sanguinaria guerriglia mistico-maoista (campagna vs. città) di Sendero Luminoso.

Al telefono, adesso, la sua voce è la stessa: tesa ma ferma, mai concitata. Malgrado la vita sempre a rischio. Riassume le perfide calunnie che periodicamente – da molti decenni -, e ancora in queste ultime settimane, gli vengono scagliate contro per demolire o almeno diluire la sua credibilità, consacrata da premi internazionali prestigiosi. Concorda che l’assalto di Quito non sarà senza conseguenze.

La condanna dell’attacco all’Ambasciata è stata sancita ufficialmente anche dall’Argentina, sebbene – c’è da credere – a denti stretti, considerata la ripetutamente dichiarata antipatia di Javier Milei per il suo pari messicano Lopez Obrador e conseguenti polemiche. Una insofferenza non inferiore a quella che sente per i giornalisti tutti o quasi: ”Li tireremo giù dalla torre d’avorio in cui credono di vivere”, è l’ultima che ha buttato lì prima di partire per il Texas, lasciandosi dietro scioperi, scontri di piazza e una crisi nel suo partito spaccato dalle rivalità personali.

“Milei si riflette nel medesimo specchio di Cristina”, ha commentato Van De Koy, firma storica del quotidiano Clarin, per associarlo all’arroganza da lui sempre attribuita alla detestatissima leader del peronismo radicale. Nel più sovranista degli Stati Uniti, il capo di stato argentino che dichiara di voler cancellare lo stato (a suo giudizio “inutile e dannoso”), è andato ad incontrare Elon Musk, il miliardario sudafricano naturalizzato statunitense e massima espressione della ricchezza privata che si fa stato nello stato.  

Livio Zanotti

 

 

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