Eugenio Barba: “Il teatro è la mia isola”


MADRID.- Dire che Eugenio Barba è un ragazzo  di 87 anni sembra una banalità. Chissà quanti, dopo averlo conosciuto lo avranno detto o scritto. Eppure, è la prima idea che ci assale mentre lo ascoltiamo durante la sua visita a Madrid in cui ha partecipato all’incontro “I senza nome” organizzato da Residui Teatro e dalla Fondazione Barba-Varley. È una sensazione che ci trasmettono i suoi occhi, il sorriso ironico appena accennato, ma non solo. Deriva dalla sua evidente curiosità, rimasta intatta negli anni, dalla voglia di ascoltare prima ancora di dire, dalla necessità di condividere, di sorprendersi, di costruire, di sognare, di creare mondi paralleli per parlare a chi in quello reale non ha diritto né di parola né di ascolto.

Il suo “Terzo Teatro”, partendo dall’Odin Teatret arriva nei luoghi altri, quelli off off off, quelli in cui il teatro si ammira, si vive, come uno specchio che rende finalmente visibile l’invisibilità.

E ora, con la Fondazione Barba-Varley, creata insieme a un’altra straordinaria attrice e direttrice, Julia Varley, la voce di entrambi si moltiplica, diventa eco che si espande nel mondo grazie alla rete costituita dai gruppi itineranti, una famiglia allargata in cui ci si incontra, si comunica, si condividono esperienze, teorie, metodologie.

Incontriamo Eugenio Barba poco prima della presentazione della versione in spagnolo del libro “I cinque continenti del teatro” scritto insieme a Nicola Savarese. Partirà il giorno seguente. Con quale bagaglio tornerà al suo lavoro quotidiano? Cosa lascerà in lui questa parentesi madrileña?

 

 

Inizia a parlare con calma, riflette, pensa.

Sono stati giorni di grande impegno lavorativo ma anche di grande gratificazione perché si sono svolti in un’atmosfera molto particolare con persone che in parte conosco e che in parte appartengono a questo universo teatrale che è il mio universo. È quello dei gruppi di teatro in cui la parola gruppo è fondamentale perché rappresenta una cornice, un ambiente, un’atmosfera di rapporti molto molto particolari. 

La voce di Eugenio Barba ha un tono basso, a tratti sembra un sussurro ma, ciononostante riesce a cancellare i rumori esterni che a tratti, d’improvviso, emergono con la violenza del chiasso. Ci ricordano i momenti in cui, dopo aver nuotato protetti dal silenzio dell’acqua, solleviamo la testa e il rumore circostante ci appare particolarmente forte, particolarmente invadente. Eugenio Barba se ne accorge e chiede silenzio. Poi continua, con la sua voce tenue, la signorilità innata dei gesti, l’attenzione per le parole.

È un’esperienza che rappresenta una sfida professionale perché mi ha permesso di affrontare molte problematiche, di essere in grado di stimolarle, di arricchirle con nuove prospettive, di approfondire dettagli ma che, per un altro verso, mi ha mostrato come in questa rete trasversale di gruppi, ognuno mantiene una sua identità, un suo modo di proteggere le differenze, ma al tempo stesso, insieme, hanno costruito un nucleo comune in cui si ritrovano per collaborare e creare una continuità nel tempo.

 

 

Eugenio Barba ha trascorso e continua a trascorrere l’intera sua vita nel e per il teatro. Ore e ore di prove, riflessioni, relazioni con altri attori, letture di testi, reazioni del pubblico. Esperienze indimenticabili. Soddisfazioni e anche amarezze?

Sento una profonda gratitudine verso il teatro come professione perché mi ha permesso di costruire la mia isola, di proteggere e difendere la mia diversità. Mi ha dato la possibilità di creare relazioni, essenzialmente di lavoro, che da una parte ti fanno rimanere vicino a te stesso e dall’altra ti aiutano a raggiungere risultati artistici che hanno un’influenza importante sugli spettatori. La costruzione di un’isola di libertà. È questa la mia grande soddisfazione. Amarezze? Non ho molte amarezze. Ho avuto dolori soprattutto quando alcuni dei miei attori sono andati via per motivi personali e non di conflitto. C’è chi si è sposato, chi doveva aiutare la famiglia, chi doveva assumere altri impegni. 

In complesso posso dire che la vita mi ha trattato molto bene.

Attore, direttore, creatore del “Terzo Teatro” e della teoria dell’antropologia teatrale. Oggi anima della rete dei gruppi itineranti insieme a Julia Varley attraverso la Fondazione Barba-Varley. Un’evoluzione che lo coinvolge come essere umano che guarda avanti, che non si stanca di cercare né di questionarsi.

Quando uno comincia non ha molta esperienza, è isolato, non è conosciuto e quindi è costretto a battersi per costruirsi quel piccolo guscio che, come quello dell’uovo, è molto sottile, molto vulnerabile. È quel periodo che chiamerei di apprendistato durante il quale ti preoccupi di non affogare, di costruire relazioni con gli altri membri del gruppo e anche con l’ambiente, con la società, con quello che io chiamo mercato ma non in una accezione negativa. Si tratta del contesto materiale in cui si opera, il luogo dell’incontro in cui bisogna negoziare, con i politici, con la stampa, con gli organizzatori e con gli spettatori. 

Questa fase di assestamento dura generalmente dai 7 ai 10 anni. Se la superi, se riesci ad avere una continuità, puoi iniziare ad influenzare anche altri e dunque comincia tutto un periodo di irradiamento con nuove iniziative e con l’apoteosi graduale che, grazie all’esperienza accumulata da te e anche da chi ti ha accompagnato e ha lavorato con te, puoi creare ponti e alleanze con altri gruppi. È quello che è avvenuto nell’Odin Teatret. Ora, che sono nell’ultima fase della mia vita, so bene che alla mia età da un momento all’altro posso cominciare un altro tipo di viaggio, sento che rappresento un gran patrimonio, che il mio prestigio è una ricchezza e desidero utilizzarlo per restituire ciò che la vita mi ha dato. Ormai non devo dimostrare più nulla, posso concentrarmi su quello che realmente mi interessa, sulla lettura, su una specie di ricerca personale, su domande molto concrete riguardanti la mia professione. Sento una gran responsabilità, sento l’obbligo di restituire ciò che ho ricevuto da tante altre persone ed è quello che desidero fare attraverso la Fondazione Barba-Varley fondata con Julia Varley. Una Fondazione che si dirige ai “senza nome” ai gruppi di teatro che sono presenti nella società ma restano ignorati, che vivono nell’anonimato e costituiscono la parte nascosta dell’iceberg teatrale. È la grande ricchezza del teatro. Esiste in Europa e in tutto il mondo grazie, in gran parte, a queste persone che si riuniscono in gruppo per costruire un rifugio di difesa alternativa alle correnti autodistruttive che la nostra società di più in più ha sviluppato.

 

 

 

Guerra, violenze, autodistruzione, cambiamento climatico, emigrazioni. Oggi sembra difficile guardare al futuro con ottimismo. Ma, qual è lo sguardo di chi, negli anni, ha visto più volte il mondo al bordo del precipizio?

La mia sensazione è che gli umani abbiano sviluppato a tal punto la loro intelligenza e la loro capacità di trasformare, che hanno popolato il nostro pianeta di forze che non riescono più a dominare. I golem che noi stessi abbiamo creato sono quelli che decidono. Comunque, non so se si può parlare di pessimismo. Pensiamo a qual era la situazione dell’Europa nel giugno del 1940 quando tutti i paesi stavano capitolando di fronte a Hitler e Mussolini e, nonostante ciò, una piccola isola, governata da un tipo conservatore, quasi reazionario che si chiamava Churchill si oppose e disse: no, Hitler non avrà vita. Penso a ciò di cui sono capaci gli umani che scalano l’Everest senza ossigeno o arrivano sulla luna. E poi penso alla medicina, ai passi avanti che sono stati fatti, a quanto si è allungata l’aspettativa di vita. Tra un po’ i centenari saranno normalità e c’è chi ipotizza che potremo vivere anche 200, 300 anni sostituendo le parti del nostro corpo che si deteriorano. Già oggi siamo corpi a metà bionici, con valvole, chiodi alle articolazioni, apparecchi auditivi.

Dobbiamo concludere, Eugenio Barba deve presentare il suo libro insieme all’editore Carlos Gil ma, prima di finire, con un sorriso ci dice:

Comunque ti confesso che sono contento di appartenere all’ultima generazione, quella che morirà in maniera decente e cioè di vecchiaia. 

Mariza Bafile

 

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