Michele Rech/Zerocalcare: “Non ho memoria di me senza una matita in mano”

MADRID.- Sarà per quella capacità sua di esprimere dubbi e fragilità, sarà per quel malessere esistenziale in cui ci riconosciamo, sarà perché vede il mondo come lo vediamo noi e lo vorrebbe come lo vorremmo noi. Inutile chiedersi tanti perché. Resta il fatto che Zerocalcare è diventato un amico che da anni seguiamo attraverso le sue storie e che ora lo è anche di moltissime altre persone che lo hanno conosciuto grazie alle serie messe in onda su Netflix: Strappare lungo i bordi e Questo mondo non mi renderà cattivo. 

Un amico che tra un po’, grazie ad una iniziativa dell’Istituto italiano di Cultura di Madrid, in occasione della Settimana della Lingua Italiana, avremo l’opportunità di conoscere di persona e di intervistare.

Ma non Zerocalcare, l’intervista è con Michele Rech. È lo stesso? Forse… È il personaggio specchio dell’autore o viceversa? Comunque, non deve essere facile per nessuno dei due perché devono muoversi all’unisono anche quando, di fronte a uno stesso fatto, vorrebbero prendere posizioni diverse.

Zerocalcare, uscito fuori dalle vignette e materializzato nel corpo di Michele Rech, resta perplesso di fronte a questo “mio” problema esistenziale: “Chi sto intervistando, l’autore o il personaggio?”  Vorrei chiederlo al mio amico Zerocalcare ma lui è indissolubilmente legato a Michele Rech per cui non potrebbe darmi una risposta spassionata. E allora chiedo a Michele/Zerocalcare se e come vive lui quel doppio essere autore/personaggio.

Ci pensa un po’. C’è silenzio intorno a noi in questa comoda stanza dell’Istituto Italiano di Cultura di Madrid, un palazzo molto bello che già di per sé parla di storia e di cultura.

 

 

(Foto credits Rosdiana Ciaravolo)

 

I confini non ci sono mai stati – riflette – Zerocalcare è stato sempre autobiografico. È complicato. A mano a mano che la diffusione cresce, il fatto di non avere confini rende tutto molto complesso. È come se in qualche modo il me vero dovesse essere costretto a certi comportamenti e non potesse mai fare un qualcosa che non fosse coerente con quello che viene raccontato al pubblico. Un po’ pesa ma è la gabbia che mi sono creato io stesso”.

 

Ma è la stessa gabbia in cui hai costretto Zerocalcare, penso e forse lo faccio a voce alta perché mi arriva la risposta di Michele: “È vero, lo è anche per lui. A volte uno si sente super schiacciato e non capisce se la responsabilità sta nel lasciare al personaggio dire una cosa o se invece sia meglio sottrarsi a questo meccanismo. È un momento di grande confusione esistenziale”. 

 

I comic di Michele Rech riflettono la quotidianità politica e più ancora sociale dell’Italia e non solo, sono lo specchio di un malessere intergenerazionale, parlano dell’angoscia condivisa di chi si chiede perché e in quale momento il mondo sembra essere impazzito, la vita abbia smesso di avere valore, il lavoro sia una meta che raramente soddisfa, la solidarietà sia diventata una parola sbiadita. Tutto raccontato da chi vive in prima persona queste problematiche, le ha masticate, sofferte, cercando uno spiraglio di speranza o quanto meno di fare qualcosa perché, anche poco, possa cambiare in meglio. La sua è un’ironia che ricorda il realismo italiano, quello che faceva ridere mentre si piangeva.

 

– In varie interviste hai detto che sei pessimista ma, nei tuoi comic, lasci sempre uno spiraglio, piccolo forse, ma sempre spiraglio, aperto alla speranza. Basta pensare al titolo dell’ultima serie in onda su Netflix “Questo mondo non mi farà diventare cattivo”.

– Penso che questo atteggiamento sia una conseguenza della mia formazione politica. Nonostante la mia indole pessimista, sono molto strutturato sul fatto che bisogna cercare di mettere un mattoncino per migliorare le cose. Lo vivo come un imperativo, forse per la famiglia in cui sono cresciuto, per le amicizie che ho, per la tribù che mi sono trovato. È come un binario obbligatorio. Ma al tempo stesso lo vivo come una grande contraddizione perché questo ragionamento profondamente razionale, fa a cazzotti con il mio carattere che è invece molto crepuscolare”. 

 

 

Proseguendo con le contraddizioni ne individuiamo un’altra: dover conciliare un carattere introverso, un lavoro solitario, come è quello del disegno, della scrittura, con la fama che lo ha obbligato a diventare un personaggio pubblico, a dover salire su palcoscenici, parlare con centinaia di persone piene di curiosità, affrontare file e file di chi aspetta pazientemente il proprio turno per avere un suo disegnino, e anche quello di aver perso l’anonimato ed essere riconosciuto e fermato per strada. E allora gli chiediamo: “Come fai?”

– A dir la verità per strada mi fermano molto poco e sempre sono persone gentili per cui non è un problema. Ciò che sì è difficile, invece, è dover gestire tante persone che vogliono ascoltarti o che si mettono in fila per ore per avere un disegnetto. Sono ossessionato dal pensiero che le cose devono essere eque ma, se mille persone vogliono un disegnetto, qual è il criterio che bisogna seguire per essere equi? C’è chi mi consiglia: tu dici che disegni due ore e basta, scadute le due ore è finita. Ma io penso a quelle persone che sono state in piedi per due ore e che poi si sentono dire: è scaduto il tempo. Oppure mi consigliano di dare priorità a chi si prenota per primo, ma se le prenotazioni coincidono con orari di lavoro allora le persone che lavorano restano fuori. Insomma, questa cosa mi sta mandando al TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio ndr.). 

 

– Quando hai iniziato a disegnare?

– Non ho memoria di me senza una matita in mano. Era il mio modo per comunicare cose che non riuscivo ad esprimere a parole.

 

– Come eri da piccolo?

– Timido. Avevo due o tre amici solamente. Quando i miei mi parcheggiavano in un centro estivo stavo anche una settimana da solo senza fare amicizia con nessuno. Sono timido anche adesso anche se riesco a vivere con scioltezza il ruolo del fumettista. Ma solo quello.

 

– Cosa ha rappresentato per te entrare nel movimento Punk quando eri adolescente?

– Non ho mai lasciato i Punk. Ancora oggi sono importanti per me. Da ragazzino era il posto in cui, chi si sentiva un po’ emarginato, trovava altri come lui. Oggi è un luogo importante perché lì tutti i valori sono rovesciati. Per esempio, il mio lavoro, le interviste ai giornali, le apparizioni in televisione sono tutte cose che i Punk considerano deprecabili e mi devo quasi vergognare. È il mondo che mi serve per restare con i piedi a terra.”

 

Né Michele Rech né Zerocalcare sono mai andati via dal loro quartiere romano Rebibbia. Un quartiere che li ha visti nascere, crescere e poi diventare famosi. Fama che sembrerebbe ingombrante perché invece per molti altri le cose continuano ad essere difficili. Non possiamo evitare di pensare con una stretta al cuore al monologo di Sara nella serie Netflix “Questo mondo non mi renderà cattivo”.

– In realtà nel quartiere non mi considerano famoso, i libri non li hanno letti e non interessano, le serie su Netflix le hanno viste praticamente tutti ma non sentono nessuna reverenza per me. Sono contenti di vedere il quartiere in un cartone animato.

 

 

– E comunque resti quello che ce l’ha fatta, al contrario di molti altri e non deve essere facile.

– Gli amici miei sono sempre gli stessi, non ho un solo amico nuovo negli ultimi dieci anni. Hanno tutti un’età che oscilla tra i 30 e i 50 anni e molti di loro stanno ancora faticando per arrivare alla fine del mese. Alcuni sono pieni di debiti, altri hanno perso il lavoro, magari hanno figli e non sanno come rimettersi in piedi. È una situazione difficile da gestire perché ti senti parte di quel mondo e sai che qualcuno è rimasto indietro. Nelle comitive io ero sempre il cucciolo, il più piccolo. In un rapporto di amicizia è difficile chiedere aiuto, c’è una forma di orgoglio che rende tutto molto imbarazzante e a volte si creano dinamiche complicate all’interno del nostro gruppo.

 

Michele è sempre stato molto impegnato, e ha incominciato ad avere visibilità proprio dopo il comic fatto a seguito della violenza vissuta durante il G8 di Genova, quando aveva solo 17 anni. Pur odiando viaggiare è andato in Kurdistan per portare medicine ai Kurdi e capire meglio cosa stesse accadendo in quel pezzo di mondo che lottava contro l’Isis. Ne nacque un fumetto importante, Kobane calling tradotto in 15 lingue. Anni dopo vi è tornato per aiutare la piccola comunità degli Azizi più volte massacrata per avere un proprio credo molto antico, preislamico. L’ultimo genocidio, fatto dall’Isis è del 2014. In quell’occasione gli uomini sono stati uccisi e le donne e bambine violentate e vendute come schiave sessuali ai mercati dello stato islamico. Dopo questa esperienza profondamente toccante ha scritto la novella grafica No sleep till Shengall. 

 

 

In un momento in cui l’aggravarsi degli odi, l’espandersi delle guerre, la disperazione di chi fugge in cerca di nuove opportunità si scontra con la durezza con cui alcune persone assistono a tanto dolore con indifferenza quando non con rabbia, chiediamo a Michele Rech se in Italia le persone siano diventate davvero tanto egoiste e crudeli come sembrerebbe.

– Non so quanto siano cambiate le persone. Ho l’impressione che siano così da molto tempo ma penso che in generale ci sia un maggiore incattivimento. Non so quando sia esploso. Comunque, sento che il Covid e il post Covid hanno segnato delle fratture molto grosse anche nella maniera in cui ci si pone con gli altri. Tutto sembra più radicale e con meno disponibilità al dialogo, alla mediazione. Una responsabilità ce l’ha anche il fatto di esserci abituati a stare chiusi e a relazionarci con Internet. 

 

– Senti che il comic può essere uno strumento di sopravvivenza per te, un modo per digerire, analizzare e superare certe problematiche?

– Se me l’avessi chiesto qualche anno fa ti avrei detto immediatamente di sì ma ora non è più così perché ho una tale quantità di consegne da fare a editoriali o a persone che mi chiedono aiuto per cause sociali nelle quali credo io stesso, che ho poco tempo per vivere il comic come uno strumento per capire e capirmi meglio. Per assurdo le cose più intime le ho fatte per una multinazionale americana gigantesca come Netflix. In quelle serie ci sono cose che vengono dalle viscere mie e che mi sono servite per elaborare questi ultimi anni, per elaborare me stesso.”

 

 

– Oggi una gran parte degli italiani vede con apprensione e spesso anche con rabbia l’arrivo degli immigrati. Eppure, l’Italia è stata e continua ad essere un paese di emigrazione. In Spagna arrivano tanti italiani, soprattutto giovani, tutte le settimane. Il nostro è un giornale rivolto agli italiani all’estero. Un messaggio per loro?

Capiamo subito di aver toccato un punto dolens. Michele esprime il suo disagio con il linguaggio silenzioso del corpo.

– Sono stato uno che negli anni, quando i miei amici cominciavano ad andar via li criticavo. Ho fatto loro una guerra mortale perché pensavo che nessuno doveva lasciare né Roma né il nostro quartiere Rebibbia. Ora che le cose mi sono andate molto bene mi sento un po’ in colpa per aver detto quelle cose. Spesso chi è rimasto sta male, sta alla canna del gas e vorrei chiedere scusa. Vorrei davvero chiedere scusa per aver parlato male di chi se ne è andato. 

 

Sarebbe bello poter continuare a conversare, a condividere dubbi e anche silenzi, magari passeggiando per le vie del centro di Madrid, ma ci sono tante persone che aspettano con ansia di vedere e ascoltare Michele/Zerocalcare per cui dobbiamo concludere la nostra intervista e sederci tra il pubblico che seguirà il suo dialogo con la direttrice dell’Istituto di Cultura Italiano di Madrid Marialuisa Pappalardo.

Intanto aspettiamo con ansia il prossimo libro, che, ci dice, è molto importante per lui e lo sarà sicuramente per molti di noi. Andrà in stampa nel 2024. 

Mariza Bafile/Redazione Madrid

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