MADRID. –
Sessant’anni dalla tragedia del Vajont. La visita del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ai luoghi del disastro ha marcato oggi la commemorazione del 9 ottobre 1963, quando 1.910 persone persero la vita in quella che è ricordata come una delle più gravi catastrofi nella storia italiana.
Questa mattina il capo dello Stato ha prima deposto una corona di fiori al cimitero monumentale di Fortogna, in provincia di Belluno, dove sono sepolte le vittime del crollo della diga. Quindi i bambini del Coro Monterosso di Bergamo e dell’associazione Montemagia di Rovereto hanno intonato canti tenendo in mano cartelli con i nomi dei 487 giovani che persero la vita nella circostanza.
Poi, spostandosi sul versante friulano, seconda tappa nel piazzale davanti alla diga, nel comune di Erto e Casso, per un breve cerimonia istituzionale durante la quale, oltre a Mattarella, hanno parlato di governatori di Veneto e Friuli Venezia Giulia, Luca Zaia e Massimiliano Fedriga.
Le parole di Mattarella
“La frana, la sparizione, nel nulla, di un ambiente, di un territorio, di tante persone. La cancellazione della vita. Sono tormenti che, tuttora – sessant’anni dopo – turbano e interrogano le coscienze”, ha detto Mattarella parlando ai presenti.
“Vogliamo, oggi, sforzarci di immaginare di specchiarci anzitutto negli occhi di coloro che non ci sono più; che, quando giunsero gli alpini, non c’erano più. Negli occhi dei soccorritori. Negli sguardi severi dei sopravvissuti. Negli occhi di chi oggi è, qui, depositario di questi territori. Per poter dire che la Repubblica non ha dimenticato”, ha proseguito l’inquilino del Quirinale.
Il rapporto tra uomo e natura
Il capo dello Stato ha insistito molto sul tema ambientale, allineandosi a quanto avevano detto prima di lui Fedriga e Zaia. “A un intervento dell’uomo che si traduce in prevaricazione, corrisponde la violenza della natura”, è stato il monito di Mattarella.
“Il disastro del Vajont venne paragonato a quello determinato dallo spostamento d’aria derivante dall’esplosione di un ordigno nucleare – ha ricordato – La tragedia che qui si è consumata reca il peso di gravi responsabilità umane, di scelte gravi che venivano denunziate, da parte di persone attente, anche prima che avvenisse il disastro. Assicurare una cornice di sicurezza alla nostra comunità significa saper apprendere la lezione dei fatti e saper fare passi avanti”.
Prima di consegnare l’ultimo atto della cerimonia a un breve concerto di Paolo Fresu insieme a un quartetto di archi, il presidente della Repubblica ha ricordato nuovamente l’importanza del rapporto tra uomo e natura. “L’interazione dell’uomo con la natura è parte dell’evoluzione della natura stessa – ha concluso – Perché l’uomo fa parte della natura, ma non deve diventarne nemico”.
La diga del Vajont fu costruita tra il 1956 e il 1959 sul fiume Vajont, nelle Dolomiti, per scopi idroelettrici. All’epoca, con i suoi 260 metri era una delle dighe più alte al mondo. Già durante la fase di costruzione emersero preoccupazioni riguardo alla sua sicurezza a causa delle condizioni geologiche della zona.
La diga fu costruita in una zona caratterizzata da rocce friabili e instabili, e il peso dell’acqua del lago artificiale causò tensioni sulla montagna circostante. Le forti piogge dei giorni immediatamente precedenti alla tragedia resero la situazione ancora più critica.
Il 9 ottobre 1963, una porzione di montagna lungo la parete della diga crollò improvvisamente, scivolando nell’invaso sottostante. Questo provocò una violenta onda d’urto, con onde giganti che superarono il bordo della diga e si abbatterono sulle comunità nella valle sottostante. I villaggi di Longarone, Pirago e molti altri sulle sponde del lago e nella valle del Piave furono praticamente spazzati via. Il bilancio delle vittime fu sanguinoso: 1.910 morti.
Con ingenti danni a proprietà e infrastrutture, è una delle più gravi catastrofi nella storia italiana. Il disastro portò a un ampio dibattito sulle responsabilità delle autorità e delle aziende coinvolte nella costruzione e nella gestione della diga. Furono sollevate molte domande sulla mancanza di misure preventive e sulle conoscenze geologiche ignorate.
A distanza di 60 anni si può affermare che quanto accaduto quel 9 ottobre del 1963 è l’esempio più tragico di disastro naturale innescato dall’attività dell’uomo, quest’ultima guidata da conoscenze tecniche ancora acerbe e interpretazioni sbagliate dell’élite di ingegneri, geologi e geofisici dell’epoca.
(Redazione/9colonne)