Destra vs. Sinistra, in piazza nella crisi sudamericana

Ursula Von der Leyen con il presidente argentino Alberto Fernandez.

Si susseguono da giorni scontri durissimi tra migliaia di manifestanti e polizia in assetto di combattimento: proiettili di gomma sparati al volto, feriti gravi, incendi, arresti, abusi, fake-news. Accade nella provincia argentina di Jujuy, nel Nord assolato e arretrato, governato da poteri locali familisti che vogliono riformare la Costituzione provinciale per privatizzare beni comuni e risorse naturali pubbliche. Prime vittime designate, la popolazione originaria del luogo, gli indios Kolla. Con l’incitamento dell’opposizione macrista, dichiarato pubblicamente da Buenos Aires.

Contemporaneamente a un orrendo femminicidio, anche questo nel più periferico settentrione argentino, nel Chaco: avvenuto tra persone vincolate al sistema di potere locale, personalistico e imparentato con il caudillismo peronista. Tutto precipita nel calderone del rovente confronto politico nazionale. Le elezioni dei governatori in corso nelle provincie anticipano la battaglia per il voto presidenziale del prossimo ottobre.

Intanto la destra colombiana spinta dai suoi ultras affolla il centro di Bogotà, per accusare il governo di corruzione e negargli quindi ogni legittimità. “Que se vaya…”, se ne vada, si dimetta, gridano i più scalmanati che non sono pochi, in un paese con decenni di guerre civili alle spalle, spente solo qualche anno addietro (e non del tutto) dalla saggia e perseverante moderazione d’un pugno di uomini di buona volontà (del presidente Juan Manuel Santos, principalmente).

Replica così alla marcia della sinistra condotta nelle medesime strade non molte ore prima dallo stesso presidente Gustavo Petro, risolto a sostenere in ogni modo l’ampliamento dei diritti al lavoro, alla sanità e alle pensioni che al Congresso per essere convertito in legge è atteso da una traballante maggioranza legislativa. Meno teso, ma non diverso, è il clima politico in Cile e in Brasile. Solo in Messico e grazie ad una onerosa intesa con le Forze Armate, il governo di Andrés Manuel Lopez Obrador riesce a mantenere solida la propria iniziativa.

Nell’evidente diversità delle varie situazioni nazionali (di dimensione e dislocazione geo-demografiche, grado e qualità dello sviluppo industriale, inserimento internazionale e intercontinentale), due dati fondamentali appaiono però comuni.

Il primo -oggettivo-, è che in tutta l’America Latina prevale ormai la consapevolezza di non poter riattivare un pieno processo di sviluppo, senza una correzione a proprio vantaggio dei termini di scambio economico-commerciale con i rispettivi partner internazionali. Ovvero: senza percepirne una maggiore quota di valore aggiunto.

Poiché il livello di partecipazione dell’opinione pubblica – ed ecco il secondo dato, questo soggettivo – è direttamente connesso a quello di solidità del sistema istituzionale attraverso il processo elettorale. Ed entrambi dipendono dalle capacità di soddisfare i bisogni materiali di popolazioni in costante crescita sociale e demografica. La crisi nella crisi provocata dal Covid lo conferma.

L’ha verificato anche Ursula Von der Leyen nella sua recentissima visita in Brasile, Argentina, Cile e Messico, la prima di un presidente della Commissione Europea negli ultimi dieci anni. Sebbene da tempo, ben prima della guerra in Ucraina, fossero avvertibili i forti cambiamenti in atto negli approvvigionamenti tecnologici, in quelli energetici, nel complesso dei flussi commerciali e finanziari che andavano nel senso di nuove alleanze strategiche dei paesi-leader (due opposte tendenze: democrazie individualiste vs. autocrazie di massa?).

In America Latina, la Cina più di qualsiasi altro paese ha portato ingenti finanziamenti e know-how per opere pubbliche, formule di credito che scavalcano il circuito del dollaro (con tangibili effetti sul mercato delle monete). Garantendosi in cambio non solo materie prime essenziali alla produzione industriale (petrolio, litio, ma anche idrogeno verde), bensì anche più ampio spazio di manovra diplomatica globale (vedi la speciale attenzione del Brasile di Lula e dei BRIC anche al momento di ricercare una pace in Ucraina).

Con garbo e simpatia (hanno riferito Fernandez e Lula), Von der Leyen è venuta a tentare di potenziare il complesso delle relazioni con il vecchio continente, che resta il primo socio commerciale. Ma essenzialmente a rimuovere le obiezioni che mantengono sepolto nei cassetti dei parlamenti interessati l’accordo Unione Europea-Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay), raggiunto dopo 20 anni di negoziati. E grazie al quale l’Europa aprirebbe le porte all’export agricolo sudamericano finora di fatto sbarrato da fortissimi dazi doganali.

Per esportare in cambio con pari agevolazioni i suoi prodotti industriali, autoveicoli (soprattutto tedeschi) in primis. Reciproche obiezioni di natura politica ed ecologica frenano però l’attuazione dell’accordo. Von der Leyen ha promesso 10 miliardi di euro d’investimenti del Global Gateway, il gigantesco progetto europeo che dovrebbe sostituire l’accantonata via della seta cinese. Ma decisivo sarà forse il vertice UE-CELAC (Comunità Stati Latinoamericani e Caraibi) fissato per il 17/18 luglio prossimi a Bruxelles.

Livio Zanotti

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