Presidenzialismo in crisi anche in Equador

El presidente de Ecuador, Guillermo Lasso, durante su juramentación al cargo. Archivo (ANSA)

Neppure nell’autoctono mondo andino, stretto tra la vertiginosa altezza delle montagne e le profondità oceaniche del Pacifico, era possibile immaginare due personaggi più antitetici del presidente dell’Equador Guillermo Lasso e del suo contemporaneo ed ex omologo del Perù, Pedro Castillo. Bianco, cosmopolita, banchiere multimilionario in dollari e coerentemente neo-liberista il primo, 67 anni, da 3 eletto a Quito in seguito alle divisioni provocate nella maggioritaria sinistra dal controverso decennio del cattolico-socialista Rafael Correa (2007-2017).

Il secondo è un meticcio, nato 54 anni fa da genitori che lavoravano da giornalieri nella raccolta del riso, cresciuto nell’interno più remoto e povero del paese, maestro rurale e sindacalista. Ma tutti e due, a distanza di pochi mesi uno dall’altro, hanno dichiarato lo scioglimento dei rispettivi parlamenti. Castillo finendo in carcere con pesanti -sebbene tutt’altro che ineccepibili- accuse d’aver tentato un colpo di stato; Lasso ancora al potere, aggrappato ad una controversa interpretazione costituzionale.

La distanza etnica e culturale che separa i due capi di stato è eccezionalmente distintiva: espressione di mondi diversi e separati, scaturiti da storie alternative di lungo periodo (spiegherebbe Fernand Braudel, che andò ad osservarli da vicino). Ma trascinate per scelta politica dalle èlites di entrambi i paesi fino alla modernità e a questo nostro millennio. Le affinità dei rispettivi contesti (l’attiguità geografica, le comuni eredità incaiche, lingue, costumi e interessi economici), tutt’altro che irrilevanti, vengono ancora viste come ostacoli invece che come opportunità.

La pur relativamente minor arretratezza della costa non è stata posta al servizio di un’integrazione con la montagna capace di favorire lo sviluppo di entrambe. Così che la ripresa culturale, demografica e politica dei popoli originari negli ultimi vent’anni, tanto in Perù quanto in Equador, ha accentuato i contrasti città-campagna e accelerato la crisi di governabilità fino a mettere in crisi i rispettivi sistemi istituzionali e il presidenzialismo che ne costituisce il fulcro.

Castillo e Lasso sono stati eletti alla massima magistratura di stati in cui governi e parlamenti erano e restano isolati dalla gran parte del paese. Pertanto fragili, corrosi a fondo da lunghi anni di conflitti sociali ignorati o manipolati e comunque irrisolti. Il Perù è stato letteralmente dissanguato da feroci guerriglie a cui lo stato ha opposto un terrorismo non meno selvaggio, che ha difeso lo statu quo violando indiscriminatamente tutte le proprie stesse leggi.

Mentre generazioni di politici si lasciavano travolgere da una corruzione comparabile solo con quella che accompagnò il declino degli imperi iberici. I più alti dirigenti politici attualmente in carcere o sotto processo sono ben più numerosi di quelli a piede libero.

La situazione si presenta molto meno tragica in Equador, solo perché i suoi tempi di sviluppo, meno convulsi di quelli peruviani, e mediati da qualche più recente riforma, non hanno generato contraddizioni altrettanto esplosive. In entrambi i casi, tuttavia, la legalità vive tensioni continue e le istituzioni vacillano.

Dissolvendo l’Assemblea Nazionale Lasso ha evitato l’accusa di conflitto d’interessi e la quarta richiesta parlamentare di “giudizio politico” in due anni di presidenza, preliminari a una possibile interdizione e a un eventuale processo penale. Per riuscirvi ha dovuto però ricorrere a un atto di forza, che pur nel caso in cui venga definitivamente riconosciuto legittimo dalla corte costituzionale compromette gli equilibri del meccanismo presidenzialista.

D’ora in avanti dovrà governare per decreto, superando ogni volta l’esame della Corte a sua volta esposta al rischio permanente di vedere compromesso il riconoscimento della sua terzietà. Nel mezzo balla l’accusa di corruzione che la maggioranza dei disciolti parlamentari rivolge a Lasso e questi rimanda loro affermando che sono complici del narcotraffico, d’accordo con l’ex presidente Rafael Correa condannato per finanziamenti politici illeciti mai ammessi e rifugiato politico in Belgio. Chiamato a coprire le inadempienze della politica, il presidenzialismo ne resta travolto.

Livio Zanotti

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