CITTA’ DEL VATICANO. – Un eminente teologo, che da giovane professore partecipò anche come “consulente” al Concilio Vaticano II. Poi pastore della sua Arcidiocesi di Monaco e Frisinga e successivamente, per 24 anni, custode dell’ortodossia cattolica come prefetto della Dottrina della Fede e strettissimo collaboratore di San Giovanni Paolo II. Infine Sommo Pontefice della Chiesa cattolica, 264/o successore dell’Apostolo Pietro. Ma per tutti resterà, e per sempre, “il Papa della rinuncia”.
Con quel suo atto, comunicato al mondo e tra la sorpresa generale nel Concistoro dell’11 febbraio 2013, e motivato con la “certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”, Benedetto XVI ha impresso il marchio del suo Pontificato.
Un “atto di governo della Chiesa”, lo definì subito l’allora portavoce vaticano padre Federico Lombardi, futuro presidente della Fondazione Ratzinger, col quale il Pontefice tedesco, in quel momento quasi 86/enne, apriva una nuova strada per la comunità e le gerarchie ecclesiali: quella dei Papi emeriti, figura ancora inesistente, ma giustificata in un’epoca in cui la durata della vita si allunga e sono ipotizzabili anche condizioni di vecchiaia e malattia che possano pregiudicare le capacità di governo.
Una scelta ben diversa da quella del predecessore Karol Wojtyla, che malgrado le gravi condizioni di salute portò la sua croce fino alla fine. E una figura, quella appunto del “Papa emerito” o “Romano Pontefice emerito” – così ha voluto essere denominato lo stesso Joseph Ratzinger dopo la rinuncia al ministero petrino -, che neppure il successore papa Francesco ha voluto codificare. “No. Non l’ho toccato affatto, né mi è venuta l’idea di farlo. Ho la sensazione che lo Spirito Santo non ha interesse a che mi occupi di queste cose”, ha risposto Bergoglio al quotidiano spagnolo Abc sulla necessità di definire lo status giuridico del Papa emerito.
Necessità, comunque, che nel quadro dell’organigramma cattolico resta e sarà demandata a decisioni future. In ogni caso, lo stesso papa Francesco ha rivelato nella medesima intervista di aver già firmato nei primi mesi del pontificato la sua rinuncia in caso di “impedimento medico”. Nei suoi quasi otto anni sul soglio di Pietro, dall’elezione del 19 aprile 2005 alla storica e scenografica partenza in elicottero per Castel Gandolfo la sera del 28 febbraio del 2013, rispetto ai quali non è un segreto avrebbe preferito ritirarsi nella natìa Baviera e dedicarsi agli amati studi e al diletto pianoforte, Benedetto XVI ha sempre inteso il suo Pontificato come “di transizione” dopo quello di somma grandezza del predecessore Wojtyla.
Pochi i documenti, per sua stessa volontà, da lasciare al magistero della Chiesa, tra cui le tre encicliche ‘Deus caritas est’, ‘Spe salvi’ e ‘Caritas in veritate’, tutte dedicate ai principi-cardine del cristianesimo. Centrale nella sua missione e nel suo magistero, Ratzinger ha sempre visto il connubio tra fede e ragione, da rinsaldare in un’epoca di Chiesa sempre più sulla difensiva dinanzi alla “dittatura del relativismo” e di avanzare della secolarizzazione.
“Distorsioni della religione”, come il settarismo e il fondamentalismo, “emergono quando viene data una non sufficiente attenzione al ruolo purificatore e strutturante della ragione all’interno della religione”, disse durante il viaggio apostolico nel Regno Unito del settembre 2010; d’altra parte “senza il correttivo fornito dalla religione, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall’ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana”.
Ma anche altre, e molto caratterizzanti, sono le questioni affrontate da Benedetto XVI, come l’Occidente visto come “terra di missione”, tanto da dedicargli un apposito Pontificio Consiglio della Nuova evangelizzazione. Nella critica al relativismo, rientra poi la difesa del “valori non negoziabili”, in particolare in materia di tutela della famiglia e della vita. Propria di Ratzinger è stata anche la ripresa di aspetti della tradizione, come la liberalizzazione della messa in latino tramite il motu proprio del luglio 2007 Summorum Pontificum. Tentativo anche di “riconciliazione” con gli ultra-tradizionalisti scismatici Lefebvriani, non andato però a buon fine.
Resta, nella teologia di Benedetto XVI, la visione del Concilio Vaticano II attraverso una “ermeneutica della continuità” e non “della rottura”. Ma è soprattutto nella lotta alla pedofilia nel clero che Joseph Ratzinger ha dato un impulso tutto personale, dopo i decenni delle coperture e dell’omertà: primo Pontefice a chiedere esplicitamente scusa alle vittime e ad incontrarle più volte, allontanando dalla Chiesa religiosi responsabili di abusi su minori e stabilendo norme e linee guida più stringenti. Anche qui, l’apertura di una strada, non senza forti difficoltà che non hanno mancato di incidere anche sulla sua decisione di rinunciare, che segna una vera svolta, percorsa poi con forza dal suo successore e che sempre più si sta radicando nella Chiesa.
(di Fausto Gasparroni/ANSA)