Giulia Poltronieri: “Tornerò a Ferrara”

BARCELLONA – “Di Ferrara mi mancano infinitamente la sua bellezza, la sua tranquillità, il suo silenzio. Mi mancano la famiglia… gli amici”. Non c’è tristezza nelle sue parole. Non c’è la malinconica nostalgia che permea quelle degli emigrati d’oltreoceano. Giulia Poltronieri, ferrarese “doc”, è la Direttrice di “Terrassa Arts Escéniques”. È il Dipartimento di Servizio di Promozione Culturale del Comune di Terrassa che si occupa di fornire alla città una programmazione teatrale. Vive a Terrassa, la seconda città più popolosa e importante della Catalogna, e, come ci confessa, ogni due o tre mesi torna a Ferrara, lì dove è nata, dove ha trascorso la sua adolescenza e dove le sue radici sono così profonde da confidarci:

– Con mio marito, un amante di Ferrara nonostante sia nato in Catalogna, parliamo costantemente di trasferirci a Ferrara una volta in pensione. Per me è importante che mia figlia, oggi ancora piccola, abbia un vincolo con la città, con Ferrara. Diciamo che sono stata adottata dai catalani, ma mi sento indubbiamente italiana e profondamente ferrarese.

 

– In un mondo che cambia costantemente, che evolve verso un’Europa senza frontiere… credi che si arriverà a sentirsi più europei, a pensare al proprio paese più come ad una regione d’Europa che come nazione? 

– Sono un europeista convintissima – assicura scandendo le parole -. Sono quello che sono grazie all’idea d’Europa su cui si è lavorato tantissimi anni. Ho la sensazione che questa Europa, quella che mi ha permesso di essere la persona che sono, di vivere dove vivo, di arrivare a fare quel che più mi fa felice, stia cambiando un po’ di orientamento. Sono Ferrarese, vivo a Barcellona e mi sento profondamente europea. Ma ho paura che non arriverò mai a vedere l’Europa veramente unita.

 

– Come sei diventata parte del mondo culturale della Catalogna? 

– In realtà – ci spiega -, la mia formazione, tutto ciò che ho studiato e l’ambito in cui ho lavorato sono sempre stati legati al turismo culturale. Ho frequentato presso l’Università di Barcellona un master in gestione culturale che, senza dubbio, mi ha aiutato ad introdurmi in questo mondo. Presa la decisione di passare dal turismo culturale  al settore prettamente culturale, la scelta delle arti performative, quelle che in Spagna chiamiamo “arti vive”, è stata immediata. Vi ho cominciato a lavorare nel 2010.

 

– Quando sei arrivata in Spagna?

– Sono arrivata direttamente a Barcellona nel 2004, grazie ad un progetto europeo: il “Progetto Leonardo” –ricorda -. Nei miei programmi dovevano essere solo tre mesi. Poi sarei tornata in Italia.

Ed invece, non è stato così. Racconta che dopo i tre mesi iniziali ha ricevuto una proposta di lavoro.

– Così ho deciso di restare –commenta con un amplio sorriso -. Da allora, tutta la mia vita si è svolta a Barcellona.

 

– Torni spesso a Ferrara. Come cambia la città, come cambiano gli amici?

– Gli amici fortunatamente non cambiano – ci dice con un amplio sorriso -. È una grande fortuna… La famiglia, purtroppo, a poco a poco, col passare degli anni, si va riducendo. È il corso naturale della vita. Per quel che riguarda la città, mi sento sempre molto comoda ogni qualvolta torno a Ferrara. Mi sento di nuovo a casa, ma con la sensazione che la città sia cambiata. Non esteticamente. È cambiata in sé stessa, è diversa. La sento un po più lontana, distante

 

– Ricordi dell’adolescenza?

– Ricordo cose che adesso non esistono più – riflette con un po’ di rammarico -. Ad esempio, la nebbia che ormai è sempre più rara. I miei inverni li ho vissuti nella nebbia. Vedi, la nebbia crea una atmosfera incredibile. Ricordo la neve d’inverno. Ecco, mi manca quel vivere molto fuori casa d’estate e molto in casa d’inverno. A Barcellona, grazie al clima, siamo sempre fuori, d’estate e d’inverno. Poi, della mia adolescenza a Ferrara, ricordo naturalmente gli amici; la relazione incredibile con le persone. Sono ancora gli stessi con cui mi ritrovo. Questo è uno dei motivi, forse il principale, per cui ogni due mesi torno a Ferrara. Ricordo una bella città che è ancora la stessa bella città.

 

 

– Come trascorrevi le giornate? Come si svolgeva la tua vita a Ferrara?

– Ho sempre vissuto nel centro della città – ci spiega -. In centro avevo tutti i luoghi di incontro dove trascorrevo i pomeriggi, una volta fatti i compiti. Sono venuta in Spagna quando ancora non avevo finito l’Università. Per cui, tutti i miei ricordi di Ferrara sono vincolati alla scuola o, al massimo, ai primi anni di Università.

 

– Diciamo che al mondo dell’educazione scolastica…

– A Ferrara ho lavorato due anni mentre frequentavo l’Università –aggiunge -. Ho lavorato nel turismo culturale, lo stesso ambito in cui ho incominciato a lavorare qui a Barcellona. Però sì, in realtà la mia vita, quella vissuta a Ferrara, racchiude le tappe dell’infanzia e dell’adolescenza.

 

-Poi ti sei trasferita a Barcellona… Quali emozioni hai provato al tuo primo ritorno a Ferrara?

– È stato molto impattante –ammette -. Dopo i tre mesi in cui sono stata impegnata nel “Progetto Leonardo,” sono rientrata in Italia con l’idea di restarvi qualche mese e poi tornare a Barcellona per intraprendere quello che sarebbe stato il mio lavoro. Era l’addio alla città e l’inizio di un nuovo cammino.

 

– Come hai vissuto il contrasto tra la tristezza, perché lasciavi i luoghi dell’infanzia e dei tuoi ricordi, e l’entusiasmo per l’inizio di una nuova tappa della tua vita…

– In realtà, – ammette – è stato più entusiasmo che tristezza. Quando sono arrivata a Barcellona, però, mi sono resa conto che tutti gli amici fatti durante il progetto europeo erano partiti. Ero rimasta un po’ sola, con pochi contatti. Il primo impatto è stato duro. Dovevo riadattarmi, riequilibrarmi. Abituarmi a un mondo nuovo. Per fortuna, sono nate immediatamente nuove amicizie.

 

– Hai trovato una società accogliente o distante?

– A Barcellona, nel 2004, mi sono sentita subito a mio agio –commenta -. La città viveva un momento di pieno splendore. Almeno io la vedevo così. Trovare lavoro era molto semplice. Si stava bene. C’erano sempre tante cose da fare. Barcellona era frequentata da tanti turisti, proprio come ora. Era vivere in una grande metropoli, con le caratteristiche di una città quasi dalle dimensioni simili a quelle di Ferrara. Poi le cose sono cambiate.

 

– Quali differenze noti, nell’ambito culturale, tra Ferrara e Barcellona?

– Con Ferrara ho ancora tanti contatti – ci dice -, soprattutto con il “Teatro Ferrara off”, con cui ho ottimi rapporti. Collaboro con loro da almeno cinque anni. L’idea è quella di portare a Ferrara elementi sconosciuti che esistono a Barcellona. Ad esempio, il “micro-teatro”. È un formato molto tipico della Spagna. In Italia, non esiste come tale. Continuo ad avere un vincolo forte con la cultura della mia città. C’è il desiderio, credo comune in chi vive all’estero, di restituire qualcosa… la necessità di lasciare un’impronta anche nella città d’origine.

 

– Come funziona il mondo della cultura in Catalogna e come a Ferrara?

– Credo che la Catalogna sia una regione in cui si investe in cultura più che in altri luoghi – afferma -. A Ferrara si fa un po’ quello che si può. La mia sensazione è che le risorse siano diverse, anche se la professionalità delle persone che ho conosciuto e che lavorano nel settore della cultura sia sempre assai elevato.

 

 

“Conoscere le lingue mi ha aiutato”

La nostra conversazione si svolge in uno scenario inconsueto: una piazza. “Plaza Margarida Xirgu”, a Barcellona, funge un po’ da centro culturale. Non a caso, la chiamano “Città del teatro”. Incontrarci proprio lì, conversare seduti in una panchina ha un suo senso, se si pensa all’attività che svolge Poltronieri. Quello spazio in cui si respira arte e cultura si popola all’imbrunire mentre al mattino, quando incontriamo la nostra intervistata, trasmette calma e serenità.

 

 

– In che modo gli studi realizzati, l’esperienza acquisita a Barcellona ti hanno permesso di arricchirti culturalmente?

– La formazione italiana mi ha aiutato tanto; soprattutto ad accedere ad un posto di lavoro – ci spiega -. È anche vero che in Italia ho studiato molte lingue. A 11 anni ho cominciato con inglese e francese oltre naturalmente l’italiano. Poi alle scuole superiori, ho frequentato l’Istituto Tecnico Commerciale Marco Polo. È una scuola che si concentra principalmente su due linee: la gestione economica e le lingue. Ho proseguito con l’inglese e il francese e ho aggiunto il tedesco. Poi, all’università, anche lo spagnolo. Le lingue sono quelle che mi hanno aperto il mondo in tutti i sensi. E sono quelle che continuano ad aiutarmi  a crescere nel mondo del lavoro. Non tutti i giorni trovi persone che dominano varie lingue. Ho imparato anche il catalano. Quindi, per me, è semplice muovermi in ogni ambito. Ad esempio, ora lavoro per un Comune. Sono cioè una impiegata della pubblica amministrazione. E questo grazie anche al fatto che parlo il catalano e lo spagnolo. Certo, non li parlo con la stessa fluidità dell’italiano, ma con poche differenze. A livello culturale, direi che la formazione ricevuta nel master “Cultural Management” mi ha aiutato ad entrare nel settore della cultura pura, sia detto tra virgolette.

 

Passeggiando si sera a Ferrara
Passeggiando di sera a Ferrara. (Foto di enrico roviaro da Pixabay)

 

– Cosa ti ha motivato a passare dal mondo del turismo, nonostante fosse turismo culturale, a quello della cultura che definisci, appunto, “pura”. Turismo culturale… come lo interpreti?

– L’idea è condividere con i turisti gli elementi storico-artistici della città.

Poi aggiunge:

– Nel mio ultimo lavoro avevo la responsabilità di creare un prodotto turistico destinato al pubblico inglese o che si esprime in inglese. Un prodotto che permettesse loro di scoprire la città di Barcellona in ogni suo aspetto, principalmente storico ed artistico. Organizzavamo tour, alcuni fatti su misura ed altri standard. Non ho organizzato mai viaggi per quei turisti che si recano a Barcellona per stare solo in spiaggia o assistere ad una partita di calcio e poi andar via.

 

– Un turismo particolare, quindi, diverso da quello di massa? 

– Esatto, un turismo che esige qualcosa di più.

 

– Poi hai deciso di dare il salto… 

– Il turismo culturale mi piaceva allora e continua a piacermi oggi – afferma -. Non escludo un mio ritorno a questo settore, ma vincolato al mondo delle arti performative. Ho lavorato per un’azienda il cui obiettivo era il profitto. Non la critico affatto, per un’azienda è giusto che sia così. Ma non mi sentivo comoda. Volevo che le persone che arrivavano a Barcellona conoscessero la città. Amo moltissimo Barcellona, per cui mi dispiaceva che i turisti si limitassero a vedere solo due o tre cose, quelle che assicuravano all’azienda un profitto economico. Ho cominciato a chiedermi: quale aspetto del mio lavoro mi fa felice? Questo vincolo con la cultura mi soddisfa pienamente. Mi son detta, proviamo; vediamo dove ci porta. Da lì la decisione di frequentare un master e, poi, la certezza che quella era la mia strada. Grazie al master, ho creato, assieme ad altri ragazzi con cui studiavo, un’associazione. Con questa abbiamo organizzato due Festival che sono già alla loro sesta edizione: uno di musica e un altro  di teatro. Io mi sono dedicata a quello di teatro, pur collaborando, cosa che faccio ancora, con i ragazzi che organizzano quello di musica.

 

– Come hai maturato la decisione di lasciare Barcellona per andare a vivere a Terrassa… un centro sicuramente più piccolo…

–  Sono arrivata nel febbraio del 2004, con il progetto europeo. Poi, nel 2010 ho frequentato il master mentre lavorato nell’ambito del turismo culturale. Nel 2020, due giorni prima che fosse dichiarata la pandemia ho cominciato il lavoro a Terrassa.

 

– Una città più piccola, forse anche meno multiculturale… 

– Forse è più multiculturale di Barcellona – ci corregge per poi proseguire:

– In realtà, è stata semplicemente un’evoluzione a livello lavorativo. Ho vinto un concorso per un posto di direzione a Terrassa. È per questo che oggi dirigo i teatri pubblici della città. Terrazza, per farci un’idea,  è una località a 40 minuti di macchina da Barcellona. Per dimensioni, è molto simile a Padova. Ha più o meno lo stesso numero di abitanti, circa 230.000. Nonostante non sia Barcellona o Madrid, è una città abbastanza grande. L’immigrazione è importante. Mi interessa avvicinare il teatro, le arti vive alle persone. Città come Terrassa sono stimolanti in questo senso. Rappresentano una sfida. Cosa fare per avvicinare anche quelle persone che hanno altre origini, altre culture?

 

– Qual è il tuo pubblico? Quali sono a tuo avviso le differenze tra Terrassa, Barcellona e Ferrara.

 

– Innanzitutto –precisa -, se parliamo di settori culturali musica e teatro sono un po’ diversi. Per fortuna, lo dico con orgoglio perché ho la sensazione di farne un po’ parte, le cose stanno cambiando, soprattutto in alcune città. In concreto, dove ci sono teatri… proviamo a stimolare, ad enfatizzare l’inclusione del pubblico giovane. Se dovessi comparare il pubblico che vedo qua con quello che vedo, ad esempio, al Festival Ferrara Off, direi che è abbastanza simile. Forse a Ferrara, è un pochino più giovane. Ma è sempre lo stesso. Alla fine, la musica attrae di più i giovani.

 

– È un pubblico esigente?

– Direi proprio di sì – ammette -. A Ferrara è più esigente. Almeno questa è la mia sensazione. Comunque, stiamo parlando di un pubblico molto simile, nonostante Terrassa e Ferrara abbiano dimensioni diverse. Coloro che frequentano il teatro sono persone molto devote alla cultura, alle arti performative.

 

– Differenza di investimento nella cultura?

– Quanto più si investe in cultura, meglio è – commenta -. È necessario vincolare la cultura con l’educazione. È quello che in Francia fanno meglio. Stimola lo spirito critico; ti apre gli occhi; ti fa crescere come individuo all’interno della società. Gli investimenti in cultura, mi dispiace dirlo, sono un discorso d’interesse politico. Ci sono piccoli comuni  in Spagna che fanno investimenti enormi in cultura. Destinano una gran parte del loro budget al settore. Hanno una vita culturale, nonostante la loro dimensione, ricchissima. L’investimento in cultura è una decisione politica a livello di paese e a livello regionale.

“Avvicinare la cultura a chi non l’ha a portata di mano”

Poltronieri  riesce a contagiarci con il suo entusiasmo. Le sue parole scorrono senza ostacoli e sono sempre accompagnate da un sorriso. È stato facile con lei rompere il ghiaccio e trasformare l’intervista in una conversazione come tra vecchi amici.

– Turismo, cultura… qual è il tuo sogno, per sentirti realizzata?

– Non penso di essere lontana dalla mia realizzazione, dal punto di vista professionale – ci confessa -. Mi piacerebbe potermi dedicare di più ad avvicinare la cultura alle persone che  non l’hanno a portata di mano. Il mio lavoro in questo momento si svolge su questa linea…

 

– Ti occupi di gestione. Non hai mai pensato di dirigere un’opera teatrale? Non hai mai avuto voglia di provarci? 

La domanda la sorprende. Esita prima di rispondere:

– Buona domanda… L’idea di dirigere, in realtà, no. Quella di partecipare ad uno spettacolo, alla sua creazione, invece, è un’eventualità che non escludo. All’inizio avevo chiarissimo che volevo fare gestione e che il palcoscenico non era il mio spazio. Poi  conosci artisti… c’è chi ti dice: “ti facciamo venir fuori in palcoscenico due o tre minuti, fai un cameo”. Ho detto, proviamo. È accaduto in un paio di spettacoli.  Devo ammettere che mi sento comoda, per cui non lo escludo. Ma, ripeto, la direzione proprio non credo. Per il livello di esigenza che mi auto-impongo credo che la direzione di uno spettacolo sarebbe troppo. Partecipare o collaborare nella creazione… perché no?

 

– Dove vedi tu il tuo futuro?

– Per il momento in Catalogna, a Terrassa – è la risposta secca, immediata -. Mi piacerebbe comunque realizzare qualche progetto anche a Barcellona. È stimolante realizzare differenti progetti allo stesso momento. Spero che questo collegamento con Ferrara  si mantenga.  La   mia vita, per il momento, la vedo qua.
Redazione Madrid