Shock nell’industria russa: si dimette il capo di Lukoil

Un distributore di benzina di Lukoil.

ROMA.  – Un impero con oltre 100.000 dipendenti che produce il 2% del petrolio del mondo ed è attivo in decine di Paesi, anche in Italia e negli Usa. É questa la Lukoil, il primo gruppo russo privato del settore, il cui fondatore e presidente, Vagit Alekperov, si è dimesso dopo averla diretta per 30 anni.

Un vero terremoto per un’economia che si regge in gran parte sulla produzione energetica. E per di più senza alcuna spiegazione ufficiale. Qualcuno pensa che la decisione sia da mettere in relazione alla posizione critica assunta sulla guerra in Ucraina. Altri che il vero motivo sia proteggere le operazioni all’estero, visto che Alekperov è tra gli oligarchi sanzionati dalla Gran Bretagna e dall’Australia.

É praticamente impossibile conoscere le opinioni dei protagonisti della vita economica del Paese, ed eventualmente il loro dissenso rispetto alla linea di Vladimir Putin, in un sistema di potere opaco che in gran parte si regge su relazioni di mutuo vantaggio tra il Cremlino, gli oligarchi e la nomenklatura dei funzionari di Stato.

Un enigma che riguarda anche Elvira Nabiullina, la governatrice della Banca centrale che con la guerra e le sanzioni si è trovata ad arginare la caduta rovinosa del rublo, riuscendo ad invertire la rotta e a riportare la moneta nazionale ai valori antecedenti al conflitto. Ora, su proposta dello stesso Putin, la Duma, la Camera bassa del Parlamento, l’ha riconfermata in carica per altri cinque anni, smentendo le voci di qualche giorno fa che la davano in rotta di collisione con il capo del Cremlino per le previsioni negative sull’impatto del conflitto sull’economia russa.

La governatrice, che guida la Banca centrale dal 2013, ha tra l’altro assicurato oggi che la Russia “non corre alcun rischio di default” perché “ha tutte le risorse finanziarie” per far fronte ai suo impegni.

Diversa la situazione di Alekperov (di origine azera e già vice ministro dell’Energia dell’Urss nel 1990), la cui società agli inizi di marzo aveva dichiarato la sua contrarietà alla guerra in Ucraina. Il Consiglio di amministrazione aveva espresso “solidarietà per tutte le vittime colpite da questa tragedia”, chiedendo “un cessate il fuoco durevole”. Una presa di posizione che non rappresenta un caso isolato tra i ricchissimi oligarchi che hanno prosperato nei 30 anni seguiti alla fine dell’Unione sovietica.

I casi più clamorosi, all’inizio del conflitto, sono stati quelli del re dell’alluminio Oleg Deripaska e di Mikhail Friedman, azionista di riferimento del gruppo Alfa Bank. In passato il caso più noto era stato quello di Mikhail Khodorkovsky, l’ex membro del Komsomol (la Gioventù comunista) che aveva costruito una fortuna immensa con affari poco trasparenti negli anni ruggenti di Boris Eltsin, prima di schierarsi contro Putin e finire in prigione per otto anni, per poi trasferirsi a Londra.

Una fonte a conoscenza dei fatti citata dalla Reuters avanza tuttavia l’ipotesi che all’origine della decisione di Alekperov – il cui patrimonio stimato si aggira sui 25 miliardi di dollari – vi sia la volontà di salvaguardare le attività oltreconfine della Lukoil. Lui stesso è soggetto a sanzioni di Canberra e Londra (dove la società è quotata in Borsa), mentre aumentano le preoccupazioni russe per possibili nuove misure punitive europee e americane contro il settore energetico. Tra le ragioni per cui finora la Lukoil non è stata colpita vi potrebbero essere proprio i suoi investimenti in questi Paesi.

Il gruppo russo controlla tra l’altro una delle maggiori raffinerie italiane, la Isab di Priolo Gargallo, in Sicilia, con una capacità di 320mila barili al giorno. E i media locali hanno già dato voce ai timori dei lavoratori dopo che alcune aziende fornitrici e prestatrici di servizi hanno interrotto la collaborazione con la stessa Isab temendo ripercussioni per se stesse.

Ma la Lukoil ha rapporti d’affari anche con gli Usa, dove controlla 230 distributori di carburante attraverso gestori locali negli Stati di New York, New Jersey e Pennsylvania.

(di Alberto Zanconato/ANSA).

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