ROMA. – Da 12 giorni, da quando i russi hanno smobilitato, i corpi senza vita delle vittime civili vengono portati nel piccolo obitorio di Bucha e in quello regionale della vicina Bila Tserkva. I medici legali fanno le autopsie, stabiliscono le cause della morte, firmano i certificati ufficiali.
Senza sosta tra un cadavere e l’altro, attraversano la burocrazia scrivendo in realtà la storia di come hanno finito la loro vita i cittadini di Bucha: le 420 persone trovate finora sepolte sommariamente nei cortili, gettate nei pozzi, negli scantinati. I volontari leggono i motivi del decesso e riferiscono ai familiari. Che ora hanno bisogno di riempire il vuoto del lutto con quanti più dettagli possibili su come sono morti i loro cari.
Secondo il certificato di morte, Lyudmyla Bochok, 79 anni, è stata uccisa da un proiettile alla testa e uno alla schiena il 5 marzo. Il suo corpo è stato trovato sulla soglia di casa a Bucha, città di pendolari vicino alla capitale Kiev. La sorella, Nina di 74 anni, disabile psichica, per il medico che ha fatto l’esame del corpo è morta di insufficienza cardiaca. Ma il nipote Yevgen Pasternak non ci crede, pensa che sia morta di paura, solitudine o fame, dopo che i russi hanno giustiziato la sorella.
Nel parcheggio della piccola morgue comunale i sacchi con i corpi arrivano sui carrelli, ammucchiati su rimorchi, furgoni e camion non refrigerati. Vengono deposti sul pavimento, anche per ore. Volontari e parenti indossano le mascherine, il sentore di decomposizione è dappertutto, attira i cani randagi.
Nadia Somalenko aspetta pazientemente il certificato di morte del marito, non guarda verso i sacchi neri: “Una pallottola in testa – le dicono – i russi devono averlo portato fuori di casa, perché i soccorritori hanno trovato le patate e le cipolle che stava pelando sul tavolo”. Alla fine della mattinata a Nadia viene consegnato il certificato di Mykola, 61 anni, suo marito. Lei ripete che si era rifiutato di lasciare Bucha perchè “non aveva paura dei russi”.
Lyudmyla invece non ha pazienza, da giorni cerca il figlio Artyom, non può più aspettare. Quando un camion entra nel parcheggio dell’obitorio di Bucha, si precipita e apre lei stessa la porta posteriore, cerca freneticamente tra i sacchi di cadaveri, con le mani nella morte. Cerca il numero 163. Lo trova: “È lui, fatemi vedere se è lui o no”. Il marito cerca di fermarla ma lei lo vede: “Questa è la nostra trapunta, il suo orecchino, la sua giacca”.
Dopo la donna ricorda a chi l’ascolta che Artyom aveva portato in salvo moglie e figlie a Leopoli, poi era tornato indietro per salvare loro, nel villaggio di Myrotske. Non è mai arrivato: il 6 aprile il suo corpo decomposto è stato trovato a 200 metri dalla loro casa, vicino a una palude. Il certificato dice che è morto per ferite di proiettile.
Sergiy Kaplichny, capo dell’impresa di pompe funebri accanto all’obitorio, passa da una bara all’altra. I funerali sono gratuiti e includono la scelta del colore della bara, una ghirlanda di fiori in plastica, la presenza di un prete. Nel cimitero numero due di Bucha, verso la foresta di abeti, i volontari vanno e vengono, le vanghe in mano, le bare arrivano di continuo, fino a sera. Il giorno dopo si ricomincia.
(di Silvana Logozzo/ANSA).