L’inflazione Usa sbanca, a gennaio fa sette e mezzo

Il presidente della Fed Jerome Powell.
Il presidente della Fed Jerome Powell. (ANSA)

NEW YORK.  – L’inflazione americana corre e a gennaio segna un aumento del 7,5%, volando ai massimi dal febbraio 1982. Una galoppata destinata a proseguire nei prossimi mesi, quando i prezzi sono attesi registrare nuovi record.

Per la Casa Bianca di Joe Biden la volata è una doccia fredda che fa temere per la tenuta della ripresa economica: la corsa infatti erode il potere di acquisto degli americani – in media di 250 dollari al mese -, oltre a mettere a rischio l’incerto futuro del piano economico da 2.000 miliardi fortemente voluto dal presidente ma già bocciato dal Senato.

“Le attese sono per un allentamento dell’inflazione per la fine del 2022”, afferma Biden assicurando l’impegno dell’amministrazione a combattere per “vincere la sfida dei prezzi”. Pur ostentando ottimismo il presidente americano è consapevole dei rischi politici della fiammata dei prezzi, soprattutto in vista delle elezioni di metà mandato e delle sue difficoltà nei sondaggi.

Gli americani infatti gli attribuiscono la colpa del carovita, mentre per i repubblicani la corsa dell’inflazione è una prova del fallimento delle politiche economiche dei democratici. Anche se in presenza di una crescita forte, di un mercato del lavoro che avanza e di un aumento dei salari, il caroprezzi – è la tesi dei conservatori – si mangia i guadagni e lascia gli americani con i portafogli svuotati.

Dietro al +7,5% dei prezzi in gennaio, l’aumento maggiore da 40 anni, si cela una corsa generalizzata che va al di là dei soli settori più colpiti dalla pandemia. I prezzi delle auto usate sono schizzati del 40,5% rispetto a gennaio dello scorso anno, mentre quelli degli alimentari hanno segnato un aumento del 7%, spingendo al rialzo i prezzi dei ristoranti e dei fast-food, rincarati dell’8%. I prezzi dell’energia sono invece saliti dello 0,9% rispetto a dicembre e del 27% su base annua.

La lotta all’inflazione della Casa Bianca si intreccia con quella della Fed. La fiammata dei prezzi aumenta la pressione sulla banca centrale per un intervento più drastico del previsto. Gli analisti ormai stimano almeno sei rialzi dei tassi di interesse quest’anno, e non escludono che in marzo il ritocco al rialzo possa essere di mezzo punto percentuale. Per gli investitori il nodo infatti non è più se la Fed alzerà o meno il costo del denaro, ma con quanta aggressività agirà. E questo si riflette sui rendimenti dei Treasury, schizzati per i titoli a 10 anni al 2% per la prima volta dal 2019.

L’aumento dei tassi di marzo è ormai dato per scontato e dovrebbe essere seguito da ritocchi almeno in maggio e giugno per arrivare a luglio con un costo del denaro di un  punto percentuale più alto di ora. Ma la corsa dei prezzi, e l’atteso picco a febbraio o marzo, potrebbe costringere Jerome Powell a un’azione più decisa da sommarsi alla riduzione del bilancio della Fed, schizzato a 9.000 miliardi con il Covid.

“La Fed ha offerto un sostegno straordinario durante la crisi. Data la forza della nostra ripresa e la recente velocità dei rialzi dei prezzi, è appropriato per la banca centrale ricalibrare il sostegno”, dice la Casa Bianca  consapevole comunque che un rialzo dei tassi potrebbe rallentare la ripresa nell’anno elettorale, complicando ulteriormente il cammino già in salita dei democratici.

La volata dei prezzi gela Wall Street, dove i listini sono in calo anche se con perdite contenute. Anche le piazze finanziarie europee hanno reagito inizialmente male di fronte al balzo dell’inflazione sopra le attese. Ma si è trattato di uno spavento passeggero. Dopo aver girato in negativo le principali borse europee, fatta eccezione per Parigi, hanno chiuso con rialzi di misura con Piazza Affari in rialzo dello 0,23% nonostante uno spread a 160 punti.

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