Addio Zamparini, presidente visionario scopritore talenti

Maurizio Zamparini, presidente del Palermo, saluta i tifosi allo stadio Renzo Barbera di Palermo il 2 febbraio 2011. Archivio . ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

ROMA. – Lo chiamavano il mangia-allenatori, perché ne cambiava almeno un paio a stagione. Vulcanico, burbero, ma anche un visionario uomo di sport e di affari con un fiuto smisurato per il talento calcistico. Ha capito l’importanza dei grandi centri commerciali ed è stato fra i primi a fabbricarli. Maurizio Zamparini, che si è spento a 80 anni in una clinica a pochi km da Ravenna, è stato questo e molto altro.

Ultimo mecenate di un calcio analogico, a modo suo un “Robin Hood” del pallone di casa nostra, perché cercava sempre di togliere ai ricchi (i club delle grandi capitali industriali, che si spartivano la fetta più grossa dei diritti tv) per dare ai poveri. Le “Cenerentole” Venezia e Palermo le società nelle quali ha lasciato un segno indelebile. Guidò il club lagunare dal 1985 all’estate del 2002 quando, dopo una breve e intensa trattativa, acquisì dalla famiglia Sensi le quote del club rosanero per la cifra di 45 milioni, pagabili in tre rate da 15.

In realtà, poi, scoperchiando il “pentolone” fra i corridoi di viale del Fante, il “Signor Maurizio” – come lo chiamavano con riverenza i suoi dipendenti – si ritrovò non pochi debiti da saldare.

A ogni modo, lui, friuliano doc, contribuì alla rinascita di una Sicilia indolente che, attraverso il grande calcio, salì l’ideale scala dei valori sportivi e sociali. Zamparini, dopo avere trascinato il Venezia dalla Serie C/2 alla A, concesse il bis a Palermo, riportando il massimo campionato di calcio dopo 32 anni in una città ormai rassegnata all’inferno dei campionati minori. Ma non solo: consolidò il club e creò i presupposti per lo sbarcò in Europa, disputando per cinque volte la Coppa Uefa e sfiorando per pochissimo la qualificazione alla Champions.

E non è tutto: grazie ai suoi investimenti, il Palermo salì sul tetto della Serie A, restandoci per sette settimane. Fece sognare una città, un’Isola. Se ci fosse stato ai tempi dello scudetto del Cagliari e della Fiorentina, o del Torino, del Verona e della Samp, c’è da giurare, che avrebbe potuto portare lo scudetto perfino nell’estremo sud.

Era un “leone” nelle Assemblee di Lega, minacciava dimissioni, restando sempre però al timone della propia creatura. Vedeva talento dove altri non riuscivano, grazie anche alla scelta di alcuni ds di alto profilo, veri e propri talent-scout come Walter Sabatini o Giorgio Perinetti, gente in grado con pochi soldi di scovare futuri campioni in ogni dove.

Quando arrivò a Palermo cominciò a staccare assegni e ad affidarli a Rino Foschi, all’epoca “suo” uomo-mercato. Arrivarono in breve, oltre ai veterani da Venezia, il club che aveva appena lasciato, campioni che scriveranno la storia del calcio italiano: Corini, Grosso, Toni, Barzagli, Barone, Zaccardo, Zauli, Sirigu. I tifosi del Palermo si stropicciavano gli occhi e, increduli, alla prima stagione in Serie A, “blindarono” tutto lo stadio Renzo Barbera di abbonamenti: su 37 mila posti disponibili, 35 mila erano occupati dagli abbonati.

Una cosa mai vista in Italia. Successivamente, sarebbero arrivati altri campioni: il “picciriddu” (bambino per i siciliani, ndr) Dybala, Vazquez, Amauri, Miccoli, Pastore, Cavani, Abel Hernandez, Kjaer, Balzaretti, Cassani, Belotti, Ilicic, solo per citare i più famosi. Il Palermo, dopo lo scudetto, sognò anche la Coppa Italia, disputando nel 2011 la terza finale della propria storia e perdendola contro l’Inter del post-triplete.

Per lui lavorarono i migliori allenatori (Spalletti, Prandelli, Guidolin, Delio Rossi, Gattuso, Del Neri, Zaccheroni, Ventura, Novellino, Materazzi, Gb Fabbri, Pioli, De Zerbi, Gasperini, per esempio). Prima di lasciare il calcio cadde in disgrazia, inimicandosi suo malgrado i tifosi che lo avevano osannato e che oggi lo ricordano con nostalgia sui social.

Fondò, convinto da qualcuno, il Movimento per la gente, che si opponeva ai rincari, ai tagli del Governo Monti, attaccando le società di riscossione dei tributi. Si illuse, invano, di costruire stadi: non glielo permisero sia a Venezia che a Palermo. Con colleghi altrettanto pittoreschi come Anconetani, Massimino, Rozzi o Gaucci, è entrato nell’immaginario collettivo di un calcio sempre meno affascinante e colorato.

Dopo gli anni d’oro il suo lento declino era iniziato con le vicende giudiziarie che avevano portato al suo arresto e al fallimento del Palermo, poi ripartito dalla Serie D. A ottobre era stato colpito dal lutto della morte del figlio Armando, di 23 anni. A dicembre era stato ricoverato ma, dopo il ritorno a casa, le sue condizioni si sono aggravate.

(di Adolfo Fantaccini/ANSA)

Lascia un commento