La svolta di Johnson: via mascherine e Green pass in Gb

Il premier britannico Boris Johnson rilascia dichiarazioni a Downing Street a Londra, dopo essere stato curato dal Covid-19, nello scorso mese d'aprile.
Il premier britannico Boris Johnson rilascia dichiarazioni a Downing Street a Londra. Archivio. (ANSA/ EPA/NEIL HALL)

LONDRA.  – Basta Green pass vaccinale, anche in formato light; basta lavoro da casa generalizzato; basta vincoli legali sull’uso delle mascherine ove che sia.

Boris Johnson brucia le tappe del passaggio verso il ritorno a una qualche normalità nel Regno Unito – dalla pandemia a una gestione endemica dell’emergenza Covid – scommettendo il tutto per tutto sui dati d’una minaccia in calo dell’ondata di contagi Omicron e annunciando l’anticipo immediato della revoca di quasi tutte le residue restrizioni reimposte a dicembre contro la nuova variante.

Lo fa evocando il parere di consulenti scientifici, che in questi giorni hanno in effetti richiamato “la speranza” di “una luce in fondo al tunnel” nel Regno; ma lo fa anche e soprattutto alla disperata ricerca di consenso, fra gli elettori come all’interno della base parlamentare del suo Partito Conservatore, per salvare una poltrona ormai in bilico a causa del cosiddetto scandalo Partygate, le rivelazioni a scoppio ritardato sui ritrovi con consumo di alcolici organizzati a partire dal maggio 2020 a Downing Street in barba al lockdown all’epoca in vigore per i comuni mortali.

La mossa – o azzardo, a seconda dei punti di vista – è stata comunicata alla Camera dei Comuni dopo un rovente Question Time durante il quale il leader dell’opposizione laburista Keir Starmer ha martellato senza tregua BoJo sul dossier Partygate, invocandone ancora una volta le dimissioni, denunciando le sue giustificazioni come “ridicole” e accusandolo di aver mentito.

E sullo sfondo di un’accelerazione delle manovre della fronda Tory contro la sua leadership, sfociate fra l’altro nello spregiudicato e contestato trasloco armi e bagagli tra le file nel Labour di un deputato di prima nomina noto per le posizioni da falco anti immigrazione, Christian Wakeford; oltre che nell’invito lanciatogli in faccia per la prima volta in aula da un veterano pro Brexit come l’ex ministro David Davis a farsi da parte “in nome di Dio”: con una citazione riferita niente meno che alla memoria dannata di Neville Chamberlain, il premier dell’appeasement con la Germania nazista sfrattato dai suoi  agli albori della Seconda Guerra Mondiale a vantaggio di Winston Churchill.

Attacchi da cui il primo ministro in carica si è difeso come ha potuto, rinnovando le scuse per gli eventi a Downing Street.

Ma trincerandosi dietro l’attesa dei risultati imminenti di un’inchiesta interna affidata all’alta funzionaria Sue Gray e insistendo di non avere nel frattempo alcuna intenzione di dare le dimissioni. Non senza rivendicare le scelte complessive del suo governo sul controverso fronte della pandemia. Scelte ispirate a limitare le restrizioni rispetto “ad altri Paesi europei” dinanzi alla comparsa di Omicron, ha detto, in favore di una strategia di accelerazione “record” nel continente delle terze dosi booster del vaccino.

E che da domani si tradurranno addirittura nell’abolizione secca in Inghilterra del grosso delle misure extra introdotte a dicembre: lo smart working; l’uso delle mascherine nei luoghi pubblici affollati, sui mezzi di trasporto urbano o nelle scuole (salvo la raccomandazione al “buon senso individuale”); e il mini passaporto vaccinale britannico previsto in queste settimane sull’isola come obbligatorio per i soli accessi a discoteche o eventi collettivi di massa.

Un alleggerimento che nelle parole di BoJo e del suo ministro della Sanità, Sajid Javid, farà del Regno “il Paese più aperto d’Europa”, in attesa di essere allargato a breve anche alle regole sull’isolamento post infezione e sui test per i viaggiatori; e che contribuirà a sostenere un’economia già tornata oltre i livelli pre Covid, con tassi di disoccupazione ai minimi storici, al netto dell’impennata dell’inflazione al primato mensile trentennale del 5,4%. Ma che secondo Starmer rischia di apparire come un’operazione acchiappa consensi più o meno disperata, ribattezzata sarcasticamente “Save the Big Dog”,  concepita per provare a salvare la testa del primo ministro piuttosto che per “proteggere la gente”.

Sospetto alimentato da un contesto in cui, oltre al cambio di casacca del deputato Wakeford o agli attacchi dell’ex ministro Davis, spuntano le indiscrezioni su una prima rivolta di grupo ordita sotto banco in casa Tory da una ventina di deputati esordienti semisconosciuti eletti nel 2019 in altrettanti collegi strappati al Labour nell’ex muro rosso dell’Inghilterra del Nord, grazie esclusivamente alla popolarità personale di un leader che essi considerano ora perduta.

Ribellione in grado di segnare una svolta nel precipizio verso quel voto di sfiducia sulla leadership di Johnson per ottenere il quale servono le lettere di 54 membri della Camera dei Comuni, il 15% del grupo conservatore: obiettivo pericolosamente a portata di mano, forse già entro l’inizio della prossima settimana, nonostante gli incontri frenetici e le pioggia di promesse ai peones di un Boris quasi stremato.

(di Alessandro Logroscino/ANSA).