Haftar vuole prendersi la Libia, attraverso le urne

In una foto d'archivio Khalifa Haftar all'arrivo al congresso internazionale sulla Libia al Palazzo dell'Eliseo a Parigi.
In una foto d'archivio Khalifa Haftar all'arrivo al congresso internazionale sulla Libia al Palazzo dell'Eliseo a Parigi. EPA/ETIENNE LAURENT

IL CAIRO.  – Non era riuscito a prendere Tripoli assediandola per 14 mesi con le sue milizie, ci riprova adesso passando per le urne: il generale Khalifa Haftar, il divisivo uomo forte della Cirenaica, si è candidato alle elezioni presidenziali che il 24 dicembre dovrebbero riunificare la Libia dopo un decennio di instabilità e tre guerre civil consumatesi a 450 km dall’Italia.

Una candidatura che segue di soli due giorni quella di un altro personaggio più che controverso: Saif al-Islam Gheddafi, il secondogenito e delfino mancato del defunto rais libico Muammar.

“Dichiaro la mia candidatura alle elezioni presidenziali, non perché corro dietro al potere, ma per condurre il nostro popolo alla gloria, al progresso e alla prosperità”, ha scandito il maresciallo di campo in un discorso pronunciato in diretta tv e atteso da oltre due mesi: ossia da quando, a settembre, si era autosospeso da ogni incarico militare palesemente per rispettare un requisito della legge sulle presidenziali libiche. Un testo cucitogli addosso da Aqila Saleh, il presidente del parlamento insediato nell’est controllato dal generale, e contestato a Tripoli dal premier Abdul Hamid Dbeibah e dall’Alto consiglio di Stato.

“La Libia è a un punto di svolta. O si opta per la libertà e l’indipendenza, o per la corruzione e il caos”, ha scandito ancora Haftar dalla sua roccaforte, Bengasi, in un florilegio di frasi da statista nonostante meno di quattro anni fa avesse dichiarato che “la Libia non è ancora pronta per la democrazia”.

Ne era tanto convinto che, per mettere ordine nel Paese dopo aver stanato casa per casa per tre anni a Derna e Bengasi jihadisti contigui all’Isis ma anche semplici oppositori, nel 2019 lanciò invano i suoi miliziani in una presa di Tripoli sventata da droni e consiglieri militari turchi. Secondo Khaled al-Montasser, docente di relazioni internazionali all’Università di Tripoli, Haftar “rimane comunque una figura controversa e contestata da una larga maggioranza nell’ovest e nel sud del Paese”. Dove c’é chi lo chiama dittatore.

Ma oggi il generale in abiti civili temporanei, appoggiato da Emirati ed Egitto, si dichiara democratico: “Le elezioni sono l’unica via d’uscita dalla grave crisi in cui è precipitato il nostro Paese”, ha sostenuto riferendosi al decennio seguito alla caduta del dittatore Gheddafi. Il cui figlio, Seif, si è appena messo in lizza nonostante sia ricercato dalla Corte dell’Aja per crimini contro l’umanità e abbia già scatenato all’ovest proteste con appelli al boicottaggio delle elezioni da parte di dignitari locali e la chiusura di uffici elettorali in sette città.

Nella Tripolitania, ossia all’ovest, fra gli altri hanno lasciato intendere di volersi presentare alle presidenziali sia Fathi Bashagha, l’ex ministro dell’Interno e patron di milizie anti-Haftar, sia Dbeibah, sebbene sia in teoria incandidabile in quanto premier. Insomma, come sintetizzato da alcuni analisti, sia che le elezioni si tengano sia che vengano rinviate, come si continua a temere, le conseguenze potrebbero essere simili: il crollo della transizione postbellica della Libia e il ritorno alla divisione istituzionale.

(di Rodolfo Calò/ANSA)

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