L’Ue e il nodo rifugiati: “Non vogliamo un altro esodo”

Karl Nehammer, Margaritis Schinas e Notis Mitarachi.
Da sinistra: Karl Nehammer Margaritis Schinas e Notis Mitarachi. (ANSA)

BRUXELLES.  – Muri fisici e barriere mentali. L’Europa di fronte alla crisi afghana ha gettato la maschera e mostrato il suo volto più duro.

Niente a che vedere col 2015, quando di fronte alle moltitudini di siriani in fuga la cancelliera tedesca Angela Merkel col suo “wir schaffen das” (“ce la possiamo fare”) aveva donato un po’ di speranza, aprendo le porte del suo Paese e di fatto anche quelle dell’Unione. Sei anni più tardi lo specchio è rovesciato.

Merkel sta per andaré in pensione. Le elezioni in Germania sono alle porte. Ed il ministro dell’Interno tedesco, il conservatore Horst Seehofer, al consiglio straordinario Ue sull’Afghanistan ha guidato la carica degli irriducibili.

“Non credo sia molto saggio parlare di numeri” per i reinsediamenti dei richiedenti asilo afghani, perché “innescano un effetto calamita che noi non vogliamo”, ha sottolineato il bavarese.

Il governo federale tedesco “ha sempre concordato programmi per persone particolarmente vulnerabili” e “siamo pronti anche per questo”, ha concesso Seehofer, esortando però ad agire “bene e rapidamente” per evitare le crisi del passato.

In scia, ma più ruvidi, Vienna, Copenaghen e Praga, che hanno scelto la formula della dichiarazione congiunta per spiegare che “il messaggio più importante dell’Ue” agli afghani è: “Restate nel vostro Paese, sosterremo la regione affinché vi aiuti”.

Nello specifico, parole dell’austriaco Karl Nehammer, che nei giorni scorsi – mentre i talebani riconquistavano Kabul col terrore – aveva chiesto a Bruxelles di poter riprendere i rimpatri forzati degli afghani verso i Paesi vicini.

“Siamo pronti ad aiutare, ma la questione deve essere risolta nella regione. Non vogliamo alimentare speranze che non possiamo soddisfare”, ha chiarito il ceco Jan Hamacek. Mentre il danese Mattias Tesfaye ha messo in guardia dal ripetere gli errori del 2015.

Insomma, per chi aveva immaginato l’apertura di corridoi umanitari e accoglienza con numeri importanti, la riunione dei ministri dell’Ue è stata una doccia fredda. É vero che il testo della dichiarazione finale è stato ammorbidito con il riferimento ad un Forum globale sui reinsediamenti il prossimo mese, come ha sottolineato il capo del Viminale, Luciana

Lamorgese, ed è vero che tutti i Paesi più o meno si sono detti disponibili ad accogliere: alcuni, come la Finlandia, valutano persino di raddoppiare. Ma è anche vero, come si legge nero su bianco nel testo finale, che gli impegni “sono volontari”.

E se il target generale Ue per i reinsediamenti fino al 2022 è di 30mila, in uno scenario ambizioso si può immaginare di raggiungere quota 60-70mila. L’Ue poi, a differenza del Canada, non ha intenzione di fissare un numero perché, come ha spiegato la commissaria Ue Ylva Johansson, occorre fare i conti anche con le migliaia di ingressi illegali.

Il timore strisciante, che si poteva leggere anche tra le righe delle parole del vicepresidente Ue Margaritis Schinas, è che l’Unione si ritrovi da sola alle prese con una crisi che non ha creato. Per questo l’insistenza su azioni inserite in un quadro allargato alla comunità internazionale, alle Nazioni Unite, al G7, al G20.

D’altra parte, nonostante le parole sull’accoglienza necessaria declinate con sfumature diverse anche nelle dichiarazioni dello spagnolo Fernando Grande-Marlaska e del francese Gerald Darmanin, l’unico ad aver puntato davvero i piedi per instillare un po’ di umanità nello statement finale della riunione – tutto frontiere sicure e aiuti alla regione afghana – è stato il ministro lussemburghese Jean Asselborn.

“L’Ue deve restare fedele ai suoi valori. Dobbiamo mostrare solidarietà”. Parole che alla luce dei fatti suonano un po’ agée.

(di Patrizia Antonini/ANSA).

Lascia un commento