Biden sanziona golpisti birmani e vara task force Cina

Il presidente Usa, Joe Biden.
Il presidente Usa, Joe Biden. ANSA/Al Drago / POOL

WASHINGTON. – Joe Biden ha varato severe sanzioni contro i generali golpisti in Birmania, chiedendo la liberazione immediata di Aung Sun Suu Kyi, e annunciato la costituzione al Pentagono di una task force sulla Cina.

Il presidente americano ha reso nota quest’ultima decisione nel corso della sua prima visita al Dipartimento della difesa guidato dall’ex generale LLoyd Austin. La task force, ha spiegato, si occuperà di tutti gli aspetti relativi ai rapporti tra gli Usa e il gigante asiatico, dal delicato capitolo dei diritti umani alle questioni legate alla tecnologia, vedi il dossier sulle reti di nuova generazione 5G.

Il gruppo di lavoro dovrà in particolare formulare delle raccomandazioni utili a individuare le priorità e le decisioni da prendere nei confronti di Pechino, gettando le basi per i futuri rapporti.

Sulla situazione in Birmania, poi, Biden ha lanciato un vero e proprio monito: “Va immediatamente restaurata la democracia nel Paese, e vanno immediatamente rilasciati tutti i leader politici e gli attivisti reclusi”, ha affermato, puntando il dito sul regime instauratosi dopo il colpo di stato militare del primo febbraio e l’arresto del capo del governo e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi.

Il presidente americano ha quindi spiegato che le sanzioni decise colpiranno i leader ed ex leader militari coinvolti nel golpe, con il congelamento dei loro beni ed asset negli Usa e del loro accesso ai fondi. Sanzionate anche alcune società ed entità complici dell’operazione che ha deposto Suu Kyi, ora ai domiciliari.

A nulla finora sono valsi i tentativi di Washington (ufficiali e non) per mettersi in contatto con la premio Nobel. Ogni richiesta è stata respinta dalla giunta militare instauratasi, spiegano al Dipartimento di stato, dove non si escludono ulteriori misure punitive nei prossimi giorni e nelle prossime settimane.

“Tutti i passi vengono e verranno decisi in stretto coordinamento con gli alleati”, ha spiegato la portavoce della Casa Banca Jen Psaki. Così il segretario di Stato Antony Blinken e il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan sono già al lavoro con diverse opzioni sul tavolo, compreso il taglio degli aiuti Usa alla Birmania, accusata da tempo anche di atrocità contro i Rohingya, gruppo etnico di religione islamica che vive nel nord del Paese asiatico.

Biden ha quindi sottolineato come la situazione sia peggiorata negli ultimi giorni, con i militari al potere che hanno decretato la legge marziale in alcuni quartieri dell’ex capitale Rangoon, di Mandalay, la seconda città del Paese, e in altre parti dello stato. Ovunque sono vietati gli assembramenti con oltre cinque persone.

Ma decine di migliaia di persone, sfidando i divieti, sono scese lo stesso in strada per il quinto giorno consecutivo, all’indomani del raid notturno condotto contro la sede del partito di Aung San Suu Kyi: un’azione dimostrativa con la quale i generali golpisti intendono mostrare come la strada scelta sia quella della linea dura piuttosto che raccogliere gli appelli da tutto il mondo perché vengano ristabiliti i diritti democratici.

Diversi, raccontano i testimoni, i cortei che di primo mattino si sono formati nel centro di Rangoon, nonostante la dura repressione delle proteste del giorno prima con l’uso di proiettili di gomma e di gas lacrimogeni da parte dell’esercito e della polizia che hanno provocato diversi feriti.

Una manifestazione con diverse migliaia di persone si è svolta anche a Naypyidaw, la capitale amministrativa del Paese. Dura la condanna dell’organizzazione non governativa Human Rights Watch: “Che la polizia spari a una manifestante è inconcepibile oltre che illegale”, ha detto Richard Weir, funcionario dell’organizzazione.

“La polizia – ha aggiunto – deve smettere di rispondere con le armi alle proteste e avviare inmediatamente delle indagini. La giunta militare del Myanmar revochi i suoi ordini draconiani sulle proteste e ponga fine alla repressione”.

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