Mafia: colpo a clan trapanesi, tredici fermi

Servizio Centrale Operativo (Sco) della Polizia di Stato.
Servizio Centrale Operativo (Sco) della Polizia di Stato.

PALERMO. – “Cinquanta euro ogni voto ..quanto ci è voluto? sono 1900 voti…anche se sono 2000…..due per cinque dieci…”: facevano i conti sulla cifra sborsata per essere eletto dall’aspirante sindaco del loro paese, Calatafimi Segesta, piccolo centro del trapanese.

Intercettati dalla polizia che indagava sulla cosca locale, da sempre legata a filo doppio al superlatitante Matteo Messina Denaro, due uomini del clan discutevano delle ultime elezioni comunali, quelle del 2019, che avevano visto vincitore Antonino Accardo, 73 anni, insegnante in pensione. Una conversazione finita nell’inchiesta della Dda che oggi ha portato a 13 fermi e che è costata al primo cittadino un’accusa per corruzione elettorale ed estorsione.

Sentito oggi dai magistrati, Accardo si è avvalso della facoltà di non rispondere. A incastrare il primo cittadino, oltre alle intercettazioni, sono le rivelazioni di uno degli elettori a cui fu chiesto di votare Accardo. “A casa mia si presentò una persona che mi promise la somma di 50 euro per ogni voto che avrei fatto convogliare in favore del candidato sindaco Accardo”, ha raccontato agli inquirenti ammettendo di aver ceduto perché aveva gravi problemi economici e i soldi gli servivano.

Dopo l’elezione gli sarebbero stati dati 30 euro, venti in meno della cifra pattuita. L’ultima indagine dello Sco della polizia parla di stretti legami tra Cosa nostra, imprenditoria e politica. E dei rapporti tra manager pubblici, come Salvatore Barone, ex direttore della ATM, la municipalizzata che gestisce il trasporto pubblico a Trapani, coi vertici della cosca di Calatafimi e col boss della zona, Nicolò Pidone.

Barone è tra i fermati ed è accusato di associazione mafiosa. I magistrati lo descrivono come un personaggio a disposizione della mafia e raccontano i tanti favori fatti al padrino. Come l’assunzione di Veronica Musso, figlia del mafioso Calogero Musso, nella società vinicola Kaggera, di cui era diventato presidente.

Barone obbediva a Pidone, avrebbe dato alle famiglie dei mafiosi detenuti i soldi della società e avrebbe procurato voti all’aspirante sindaco di Calatafimi. Il tutto dietro la supervisione di Pidone che teneva summit di mafia nella sua masseria e gestiva i rapporti con le altre cosche della zona.

Tra gli indagati anche altri condannati per mafia come Rosario Leo, pregiudicato che vive a Marsala, vicino a uno dei “postini” di Matteo Messina Denaro, Sergio Giglio, coinvolto nell’inchiesta sui favoreggiatori del capomafia latitante. Nelle indagini sono finiti anche insospettabili accusati di aver favorito le comunicazioni tra il capo della famiglia calatafimese, specie nel periodo in cui era sottoposto alla sorveglianza speciale, ed altri mafiosi, tra cui lo stesso Rosario Leo, per un periodo sottoposto a misura di prevenzione.

Fermati anche l’imprenditore Leonardo Urso, di origini marsalesi, enologo, accusato di favoreggiamento, e l’imprenditore agricolo Andrea Ingraldo, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa: per attenuare la misura imposta a Pidone aveva finto di assumerlo nella sua ditta. Il clan controllava il territorio conducendo ‘inchieste’ per ricostruire crimini avvenuti non “autorizzati” da Cosa nostra e interveniva con atti intimidatori nei confronti di chi collaborava con la giustizia.

Come avrebbe fatto con l’imprenditore Antonino Caprarotta, a cui è stata bruciata l’auto su ordine di Pidone. Caprarotta aveva denunciato l’imprenditore mafioso Francesco Isca ed altri soggetti implicati nella vicenda della gestione illecita dei parcheggi del parco archeologico di Calatafimi-Segesta.

In cella anche il trentasettenne di Calatafimi Ludovico Chiapponello, accusato di aver bonificato dalle microspie della polizia la masseria di Pidone, mentre non è stato arrestato, ma è finito nel registro degli indagati, un agente della Polizia Penitenziaria, a cui è contestato il reato di rivelazione di segreto d’ufficio commesso per agevolare Cosa Nostra. I pm hanno disposto il fermo perché dall’indagine è emersa l’intenzione di alcuni indagati di darsi alla latitanza.

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