Putin ferma la guerra nel Karabakh e invia 2000 soldati

Il presidente russo Vladimir Putin.
Il presidente russo Vladimir Putin. (ANSA)

MOSCA. – Se non proprio la pace, almeno una tregua. E questa volta ha l’aria di essere duratura. Nel Nagorno-Karabakh, dopo oltre un mese di scontri, le armi finalmente tacciono grazie all’accordo firmato tra Baku ed Erevan, con la benedizione – e la garanzia – di Vladimir Putin.

Che ha inviato nel fazzoletto di terra conteso  ben duemila soldati (e centinaia di mezzi corazzati) per monitorare, sul campo, il rispetto dell’intesa. Il presidente azero Ilham Aliyev ha gridato al risultato “storico” e alla “svolta” nell’ormai trentennale conflitto. Non c’è dubbio, infatti, che sia proprio l’Azerbaigian a uscirne vittorioso.

L’Armenia, al contrario, è sotto shock. Il premier Nikol Pashinyan ha ammesso la sconfitta – “me ne assumo la responsabilità” – e ha definito la tregua “dolorosa” quanto “necessaria”. La caduta della cittadina-chiave di Shushi ha d’altra parte segnato le sorti del conflitto, con la capitale del Karabakh, Stepanakert, ormai nel mirino dell’artiglieria azera.

I vertici militari armeni hanno dunque esortato Pashinyan a chiudere la partita, poiché a quel punto si rischiava “l’esistenza stessa dello Stato”. Il premier ha allora accettato l’inevitabile, firmando l’intesa attentamente elaborata da Mosca, che proprio a inizio mese ha ricordato all’Armenia come i trattati di assistenza militare in essere valgano solo per i confini “riconosciuti sul piano internazionale”.

Dunque nessun aiutino per l’Artsakh (il nome armeno del Nagorno-Karabakh). Non appena la tregua è stata annunciata, in nottata, per le strade di Erevan si è scatenata la rabbia e una folla di scalmanati ha assaltato i palazzi del governo e del parlamento (poi messi in sicurezza dalle forze di polizia).

L’opposizione ha minacciato battaglia, con la promessa di stracciare l’accordo, e persino il presidente, Armen Sarkissian, ha fatto capire di non essere d’accordo e ha detto di aver appreso della capitolazione “dai media”.  Ma esercito e stato maggiore sono stati chiari: l’accordo va sostenuto, pena guai più seri.

Ma ecco cosa prevede in dettaglio il piano elaborato da Mosca. Le forze armate azere e armene resteranno nelle posizioni occupate al momento, il contingente di pace russo verrà dislocato sulla linea del fronte nel Karabakh e lungo il corridoio verso l’Armenia (ci resterà cinque anni ed è già prevista un’estensione di altri cinque con il consenso delle parti), tutte le vie di collegamento della regione saranno sbloccate e i due duellanti si impegnano a non ostacolare il movimento di cose o persone sia sull’asse

Azerbaigian-Karabakh-Armenia che su quello tra l’enclave azera di Nakhchivan e l’Azerbaigian occidentale, garantendo così a Baku un accesso diretto alla Turchia (vigilerà la Russia). I rifugiati potranno poi tornare nelle loro case (supervisionerà l’Onu) e saranno scambiati i prigionieri di guerra.

“Spero che i passi compiuti aiutino a stabilire una pace duratura per il bene dei popoli di Azerbaigian e Armenia”, ha commentato Putin in giornata. Va da sé che la tregua nel Nagorno-Karabakh è importante non solo per le sorti del territorio conteso ma perché pesa i rapporti di forza nella regione (e oltre).

L’accordo ha tagliato fuori Francia e Usa (proprio mentre l’Occidente è concentrato sulle elezioni americane) e ha riaffermato nel Caucaso il ruolo di dominus del Cremlino – che al contrario del 1994 ora ha ottenuto di poter mettere gli scarponi sul terreno.

Ancora. La Turchia, che certamente ha consolidato la sua crescente influenza nell’area, non ha avuto un riconoscimento ufficiale (tema caro a Mosca). Tant’è vero che il portavoce di Putin ha subito corretto Aliyev, evidenziando come “non siano previsti soldati turchi” sul campo e che la presenza di Ankara sarà limitata al centro di coordinamento del contingente di pace.

Certo, l’Armenia ora è furente con Mosca e il futuro di Pashinyan è più che mai incerto (peraltro il Cremlino non lo ha mai amato). Ma altre opzioni non ne ha. “La tregua reggerà. La strada verso la pace resta però lunga e accidentata”, ha avvertito Dmitry Trenin, direttore del centro Carnegie di Mosca.

(di Mattia Bernaro Bagnoli/ANSA)

Lascia un commento