La battaglia per l’anima dell’America

Donald Trump y Joe Biden

ROMA.  – “Una battaglia per l’anima della nazione”: lo slogan usato spesso da Joe Biden nella campagna elettorale è lo specchio fedele di quello che è accaduto nei 50 stati americani, autentici battleground dove è andata in scena  una lotta senza esclusione di colpi per alcuni pugni di voti decisivi per la vittoria ma, soprattutto, per capire quale dovrà essere l’America di domani.

Il futuro degli Usa, e quindi inevitabilmente del mondo, è stato il vero bottino in palio in queste elezioni che sono destinate a fare la storia. Un Paese spaccato a metà, lacerato dalle questioni razziali mai davvero risolte e da una crescita delle diseguaglianze economiche e sociali, ha assistito ad uno scontro senza precedenti e che ha contrapposto due visioni opposte dell’America.

Da un lato il nazionalismo di Trump, il cambiamento di regole fissate da decenni, un’America first che guarda intensamente agli interessi nazionali ma che ha limitato spesso la tradizionale visione globale del Paese.

Dall’altro un approccio più solidale ai problemi del Paese, il ritorno moderato al multilateralismo, un dialogo nuovo ma comunque critico con il resto del mondo, un’attenzione più forte ai temi dell’ambiente e del clima.

Ma, ancora più di questo, era in gioco la percezione stessa che gli americani e i cittadini del resto del mondo avranno dell’America che uscirà fuori dalle prime elezioni nell’era del Coronavirus.

L’approccio al tema del Covid è il simbolo plástico delle divisioni che hanno attraversato l’America. Da un lato le folle plaudenti, spesso senza mascherine, che hanno visto in Trump l’unico politico capace di interpretare la rabbia e il malessere di una parte importante del Paese, anche se con derive pericolose verso la destra bianca suprematista.

Dall’altra la sicurezza di una politica classica e ordinata, rispettosa delle tradizioni (e degli scienziati, a cominciare da Fauci) anche se senza gli slanci e la forza che va indubbiamente riconosciuta alla campagna di Trump.

Gli americani, consapevoli, sono scesi in campo con numeri da record e con una partecipazione vista raramente in altre elezioni: in 100 milioni hanno votato prima del 3 novembre. Con i sondaggi che anche stavolta non hanno funzionato (dov’è finita la marea blu?) e con un sistema elettorale spietato, amato negli Usa ma poco condiviso nelle democrazie europee, l’America ha assistito, con il fiato sospeso, allo spoglio delle schede che disegnerà il profilo del Paese per i prossimi quattro anni.

Trump è stato molto abile nel capire la pancia del Paese, è la sua forza, è il suo istinto. I suoi elettori lo amano profondamente. Si è impossessato del Grand old party portándolo più a destra, ha giocato duro per tutta la partita, che probabilmente non è finita ed avrà una velenosa coda giuridica con un possibile ricorso alla Corte suprema. Biden ha mantenuto i nervi saldi, ha resistito agli assalti del tycoon, è andato in difficoltà per la sua aggressività ma è stato bravo a rimanere nel suo terreno moderato, senza cadere nelle trappole dei repubblicani.

É sembrato più vicino, rispetto ad Hillary Clinton, alle aspettative della classe media bianca del Midwest, quelli che una volta votavano dem e che, delusi e frustrati, quattro anni fa hanno deciso di votare per Trump.

I democratici si sono aggrappati a lui come all’ultima speranza prima del burrone. E, alla fine, nonostante alcuni limiti, Biden è stato capace di esprimere un credibile aplomb presidenziale ed è stato premiato con il record dei voti mai raggiunti da un candidato alla Casa Bianca.

In questo momento decisivo, l’America ha risposto “presente”, è scesa in piazza, ha scelto ed ha indicato la direzione dove deve andare il sogno americano e quale dovrà essere la nuova frontiera da attraversare.

(di Stefano Polli/ANSA)

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