ROMA. – Per le donne lavoratrici che hanno avuto figli il gap salariale rispetto a quelle che non ne hanno avuti può essere calcolato in circa 5.700 euro l’anno ed è legato all’utilizzo più intensivo del part time e a percorsi di carriera più accidentati: la stima è contenuta nel Rapporto annuale dell’Inps presentato oggi dal quale emergono numerosi dati tra i quali la conferma dell’esistenza di una larga platea di pensionati che possono contare su meno di 1.000 euro al mese.
Secondo il Rapporto Inps nel 2019 il 33,6% dei pensionati dell’Istituto (5,19 milioni su 15,46 totali) aveva pensioni inferiori a 1.000 euro (calcolati dividendo per 12 l’importo annuale) e tra questi poco meno di 1,6 milioni poteva contare su importi inferiori a 500 euro.
In pratica oltre un terzo dei pensionati riceve il 12,6% della spesa pensionistica (294,3 miliardi complessivi per i pensionati Inps che sale a 300,9 miliardi se si considerano i 16 milioni di pensionati totali) .
Per circa 1,27 milioni di pensionati più benestanti (l’8,3% dei pensionati Inps) l’assegno è superiore a 3.000 euro al mese per oltre 66,7 miliardi totali e il 22,7% della spesa complessiva.
Il tema delle pensioni basse rischia di essere centrale anche nei prossimi anni una volta che andrà in pensione chi ha l’assegno interamente calcolato con il metodo contributivo, ovvero le coorti più giovani di lavoratori. Su questo ha chiesto di riflettere il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, affermando che è “inaccettabile” che il peso del contributivo (ovvero di pensioni più basse se la carriera non è lunga e il posto di lavoro stabile) pesi solo sui lavoratori giovani.
Se dal 2021 si andasse tutti a riposo con questo sistema (cambiando quindi le regole per chi ci va ancora con il retributivo, ormai gli ultimi, o con il misto) il livello di risparmio al lordo degli effetti fiscali sarebbe crescente fino ad arrivare intorno ai 19-20 miliardi annui nel decennio 2040-2050 per poi diminuire fino ad annullarsi completamente con l’estinzione dei pensionati appartenenti al regime misto e retributivo e dei loro superstiti.
Ma ancora nel 2019 si sono favoriti i lavoratori con carriere lunghe e stabili. Grazie a Quota 100 e alle altre misure correlate come il blocco dell’aspettativa di vita per chi aveva 42 anni e 10 mesi di contributi, si legge sempre nel Rapporto, le pensioni anticipate rispetto all’età di vecchiaia sono state oltre 328.000, il numero più alto in assoluto dopo il 1997.
Grazie ai numerosi interventi di riforma delle pensioni le età medie di uscita dal lavoro dal 1992 comunque sono aumentate per gli uomini di circa sette anni (da 57 anni nel 1992 a 64 nel 2019) e per le donne di circa 8,5 anni (da 55 e mezzo nel 1992 a 64 nel 2019).
Perché le pensioni possano essere più alte soprattutto per le donne (che al momento ricevono assegni medi di 1.321 euro a fronte dei 1.826 euro medi percepiti dagli uomini, sempre dividendo l’importo annuo in 12 mesi e non in 13, è necesario che aumenti il tasso di occupazione femminile e che una volta al lavoro le donne non lascino il posto dopo aver avuto un figlio.
I salari settimanali delle donne che hanno avuto figli rispetto alle lavoratrici che non ne hanno avuti – spiega il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico – “crescono del 6% in meno, le settimane lavorate in meno sono circa 11 all’anno e l’aumento della percentuale di madri con contratti part-time è quasi triplo rispetto a quello delle donne senza figli. Gli effetti della maternità – dice – sono evidenti e si manifestano non solo nel breve periodo, ma persistono anche a diversi anni di distanza dalla nascita del figlio.
Sarebbe utile prevedere ad uno sgravio contributivo per donne che rientrano in azienda dopo una gravidanza, aiutando così l’occupazione femminile e riducendo le possibilità di indebite pressioni sulle scelte delle lavoratrici. Per ogni neoassunta, entro tre anni dall’assunzione, che vada in maternità e rientri al lavoro,- ipotizza – l’azienda otterrebbe un esonero contributivo per tre anni”.