Schiaffo di Trump a Xi: “Cambiate guida del partito comunista”

Il Partito comunista cinese supera i 90 milioni di iscritti.
Il Partito comunista cinese supera i 90 milioni di iscritti.

WASHINGTON. – “E’ ora che i cinesi cambino la guida del partito comunista”. Stavolta il segretario di stato americano Mike Pompeo, parlando alla Richard Nixon Presidential Library, si rivolge direttamente ai cittadini della superpotenza asiatica, e il suo appello è di quelli destinati a segnare una svolta nell’escalation dei rapporti tra Washington e Pechino.

Per la prima volta, rotti gli indugi e superate le ultime cautele, l’amministrazione Trump in pieno clima da Guerra Fredda ipotizza un cambio di regime in Cina. E quello del tycoon, per ora tramite le parole del capo della diplomazia Usa, rappresenta un vero e proprio schiaffo a Xi Jinping: un leader finora guardato con benevolenza dalla Casa Bianca, ma adesso dipinto da Pompeo come “un presidente che crede nell’ideologia totalitaria”, alla stregua di altri dittatori e tiranni in giro per il mondo.

“Il Partito Comunista cinese – ha affondato il segretario di stato – ha paura delle opinioni oneste dei cinesi più di qualsiasi altro nemico straniero, e gli Stati Uniti devono impegnarsi a rafforzare i cinesi”.

Sono lontani i tempi in cui Trump lodava Xi, non nascondeva la sua invidia per la forza e la longevità della leadership del presidente cinese e sognava di avere con lui uno storico incontro. Soprattutto gli episodi delle ultime settimane hanno cambiato lo scenario: il giro di vite ad Honk Kong, la repressione senza fine degli uiguri, le accuse alla Cina di aver innescato la pandemia e di voler rubare il vaccino all’Occidente, le mai sopite mire espansionistiche di Pechino sul Mare del Sud della Cina: sono tutti fattori che hanno indotto l’amministrazione Trump ad assumere una posizione molto più dura.

I falchi sembrano aver convinto il presidente a forzare la mano. E il tycoon appare sempre più persuaso che la linea dura con Pechino può pagare molto in termini elettorali, così come la strategia del ‘law and order’ in chiave interna. In questo quadro non è un caso la mossa senza precedenti della chiusura con l’accusa di spionaggio del consolato cinese di Houston, in Texas, con il tycoon che ha minacciato nelle ultime ore di agire contro altre sedi diplomatiche di Pechino in Usa.

Mentre l’Fbi assedia il consolato di San Francisco dove si è rifugiata una biologa cinese accusata di avere legami con l’Esercito di liberazione e sfuggita all’arresto.

L’ira di Pechino per gli ultimi episodi non si è fatta attendere: l’amministrazione Trump “sta sorvegliando, molestando e reprimendo studenti e ricercatori cinesi negli Stati Uniti, attribuendo loro colpe presunte che rappresentano una persecuzione politica chiara e che viola gravemente gli interessi dei cittadini cinesi”, ha denunciato il portavoce del ministero degli esteri Wang Wenbin.

Ma Pompeo è stato chiaro: “Sono decenni che l’America non reagisce, non risponde all’offensiva cinese. Ora basta, è una questione di sicurezza nazionale, sempre più a rischio. Bisogna ripristinare un equilibrio nelle relazioni”, ha insistito il segretario di stato americano, accusando Pechino anche di usare metodi coercitivi contro i diplomatici Usa in Cina e di impedire loro di incontrarsi con membri della legislatura o considerati dell’opposizione: “Questa assenza di reciprocità, come ha detto più volte il presidente Trump, è inaccettabile”.

Intanto Pechino lamenta minacce di morte e di attentati contro la sua ambasciata a Washington per colpa di quelli che vengono definiti “insulti e odio alimentati dal governo Usa”. Toni senza precedenti.

(di Ugo Caltagirone/ANSA)

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