Imprese, 70% ricorre a Cig e 57% attende liquidità

Lavoratrice al lavoro in una fabbrica di stoviglie.
Dipendente al lavoro in una fabbrica di stoviglie. (ANSA)

ROMA.  – Le perdite accusate dalle imprese nel pieno dell’emergenza Covid, in stretto lockdown, spiegano tutta la voragine registrata dagli indicatori secchi sul Pil o la produzione industriale. Quattro aziende su dieci hanno visto dimezzare gli affari, quasi una su sei li ha azzerati.

Non stupisce allora come oltre il 70% abbia fatto ricorso alla casa integrazione. Oltre il 40% ha chiesto sostegno al crédito attraverso i canali concessi dai decreti governativi anti-crisi.

Ma oltre la metà, più del 57%, è “in attesa” di ricevere i sostegni. Le percentuali sono quelle dell’Istat che ha indagato sulle ripercussioni dal Covid sul tessuto produttivo italiano. Una rilevazione che ha portato a sondare oltre 90 mila aziende.

A preoccupare non è solo la ferita inferta sul momento ma anche quel che si prospetta. Per oltre la metà delle realtà intervistate la liquidità non basterà ad arrivare alla fine dell’anno. Una su quattro teme di non riuscire a garantire l’operatività. In altre parole c’è una grossa fetta che vede a rischio la stessa sopravvivenza aziendale. Di certo, è così per un’impresa su tre, il fatturato non potrà che scendere.

Una visione cupa. E non aiuterebbero i tempi per l’erogazione della liquidità. “Le richieste di accoglimento soffrono di tempi di risposta relativamente lunghi”, scrive l’Istat nel Report. Ma l’Abi, l’associazione delle banche italiane non ci sta, rivendicando un “grande supporto” da parte degli istituti di credito al sistema. Ciò a fronte di numeri che crescono in modo esponenziale.

I finanziamenti richiesti al Fondo di garanzia, stando all’ultimo aggiornamento, hanno superato i 31,5 miliardi di euro. Risultano poi soddisfatti, rimarca l’Abi, i due terzi delle domande per i prestiti di piccola taglia, fino ai 25 mila euro.

Andando per ordine, l’Istat ricorda come tutto sia cominciato con la serrata. Quarantena che ha contraddistinto i mesi di marzo e aprile, con metà delle imprese che hanno sospeso l’attività. Un terzo è rimasto invece sempre aperto. Nonostante il Coronavirus abbia colpito  più duramente il Nord, è il Mezzogiorno che mostra le quote di confinamento più alte e una ripresa, con la Fase 2, più lenta. Per il resto, l’Istituto di statistica non può che confermare gli effetti più nefasti dell’epidemia su turismo e micro-imprese.

Ma in nessun caso la formula “business as usual” è rimasta valida. Chi ha tenuto i battenti alzati si è dovuto comunque riorganizzare. La santificazione degli ambienti di lavoro è diventata la norma, si sfiora il 100%. E così anche la distribuzione ai propri dipendenti di mascherine, guanti e gel disinfettanti. In sette su dieci hanno, poi, messo in piedi strategie informative o procedute di triage. Oltre la metà ha preso la temperatura all’ingresso.

Si fa invece più fatica ad adeguare alle necessità di distanziamento gli spazi. Il 14% delle imprese alza le mani in segno di resa. Più facile agire attraverso la leva del personale, ricorrendo allo smart working, utilizzato da un’azienda su quattro, o distribuendo i dipendenti su turnazioni differenti. Molto gettonato tra le imprese anche lo smaltimento delle ferie. In questa situazione solo un esiguo 3% ha deciso di andare avanti nonostante tutto e assumere.

L’Istat invita a reagire, lamentando come “una risposta strategica e integrata alla crisi causata dall’emergenza sanitaria appare complicata per un largo segmento di imprese, soprattutto di minori dimensioni, che appare sostanzialmente spiazzato”. Si tratta di circa 280 mila imprese che, pur avendo subito effetti negativi, “non hanno ancora intrapreso contromisure”.

(di Marianna Berti/ANSA)

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