“Il virus esploso in Cina”, ma Pechino censura l’Ue

Coronavirus, una strada deserta nel centro di Wuhan, provincia di Hubei. Cina
Coronavirus, una strada deserta nel centro di Wuhan, provincia di Hubei. Cina. EPA/TOM KUO CHINA OUT

ROMA.  – Non solo Pechino non vuole nemmeno sentir parlare di una sua presunta cattiva gestione dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19 – e figuriamoci delle “false accuse” di Trump e delle teorie Usa sul Sars-Cov-2 nato in laboratorio -, ma quando può cancella anche qualsiasi riferimento alla stessa origine cinese del coronavirus.

Tanto da arrivare a censurare un articolo co-firmato dall’ambasciatore dell’Unione europea a Pechino e pubblicato sul China Daily, il quotidiano voce del Partito comunista cinese.

E così, se nel testo originario si parlava di una “esplosione del coronavirus in Cina”, e della sua “successiva diffusione nel resto del mondo”, la versione edulcorata uscita dopo il controllo del ministero degli Esteri di Pechino è diventata semplicemente “l’epidemia del coronavirus”. Cassato dalla mannaia dei funzionari ogni legame del virus con il luogo da cui è effettivamente partito tutto.

Una vicenda che ha portato l’autorevole Financial Times a scrivere addirittura di “uno scontro” tra Unione europea e Cina, anche se la Commissione europea si è affrettata a gettare diplomaticamente acqua sul fuoco: la delegazione dell’Ue a Pechino, hanno sottolineato da Bruxelles, era stata informata preventivamente della censura ma ha deciso comunque di autorizzare la pubblicazione della lettera anche nella sua versione mutilata, seppure “con grande riluttanza”, in modo da far conoscere le proprie politiche.

Il documento è stato poi pubblicato per intero dai siti internet della delegazione Ue in Cina, da quelle dei suoi Stati membri, ed è stato distribuito ai media cinesi. Alcuni dei quali, nel frattempo, hanno pubblicato la lettera nella versione integrale.

Un episodio tutto sommato di carattere minore ma che testimonia quanto il tema rappresenti un nervo scoperto, un dossier ad altissima tensione per la Cina.

Nei giorni scorsi – oltre alle accuse di aver prima tenuto nascosta e poi minimizzato le reali dimensioni dell’epidemia – Pechino si è trovata anche a doversi difendere dalle teorie formulate del segretario di Stato americano Mike Pompeo (e prima di lui direttamente da Donald Trump) circa una presunta origine del coronavirus nel laboratorio di virologia di Wuhan.

Ricostruzioni smentite peraltro dalla comunità scientifica, a partire dall’Organizzazione mondiale della sanità, e contraddette dalle intelligence occidentali. Al punto che lo stesso Pompeo si è trovato costretto ad una parziale retromarcia.

Questo oltre alle frequenti bordate di Trump, che da ultimo ha descritto il virus come una nuova Pearl Harbour o un 11 settembre, una lettura che sembrerebbe voler dipingere la pandemia quasi come un attacco diretto nei confronti degli Stati Uniti. Tanto che c’è chi parla già di una nuova guerra fredda tra Usa e Cina.

La Casa Bianca ha fatto trapelare in questi giorni “delusione e frustrazione” per le relazioni fra Washington e Pechino, su cui aleggia nuovamente lo spettro dei dazi commerciali. Secondo indiscrezioni, nella capitale statunitense si starebbe valutando il modo in cui “punire” la Cina dal punto di vista economico.

Tutte accuse su cui Pechino non cessa di rispondere punto su punto. Quelli di Trump sono “commenti discordanti, falsi e non sinceri”, hanno ribattuto dal ministero degli Esteri: “La parte americana smetta di provare a spostare la colpa sulla Cina e passi ai fatti”.

(di Salvatore Lussu/ANSA)

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