Coronavirus: test e tamponi, i nodi da sciogliere

Personale medico dell'ospedale San Paolo di Milano effettua un tampone ad un paziente affetto da Covid19 e dimesso.
Personale medico dell'ospedale San Paolo di Milano effettua un tampone ad un paziente affetto da Covid19 e dimesso. L'esame viene effettuato all'esterno del nosocomio direttamente dall'auto paziente. Milano 29 Aprile 2020. ANSA / MATTEO BAZZI

ROMA. – Dopo il lockdown la riapertura segna una fase delicatissima nella quale nulla potrà essere lasciato al caso: test sierologici, tamponi, distanziamento e dispositivi di protezione restano misure irrinunciabili per riaprire in sicurezza.

Sono però ancora molti i nodi da sciogliere, considerando che non è ancora stato fissato il livello di anticorpi oltre il quale si è protetti, che i test sierologici non possono essere diagnostici perché nella prima settimana dal contagio gli anticorpi non si sono ancora formati e che, poiché avere gli anticorpi non significa non essere contagiosi, i test dovranno essere accompagnati da un tampone.

Cautela resta intanto la parola d’ordine, considerando che senza ulteriori interventi anche un ritorno al 20% dei livelli di mobilità pre-quarantena potrebbe causare un aumento di 3.700 decessi e che salendo al 40% i decessi potrebbero diventare 18.000, secondo le stime del Centro per i modelli delle malattie infettive dell’Imperial College di Londra, che collabora con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms).

Diventano quindi cruciali le misure di monitoraggio che permetteranno di seguire la situazione epidemiologica e a questo scopo sono di importanza primaria test sierologici e tamponi. In proposito l’epidemiologo Giovanni Rezza dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ha detto che nella fase 2 “ci vuole un cambio di passo” e il modello diventa il Veneto: “Ha fatto molto bene, ha fatto molti tamponi sul territorio, va fatto così in tutta Italia. Bisogna fare tamponi anche ad asintomatici e contatti stretti”.

Tamponi di massa sono stati chiesti anche nell’appello rivolto alle autorità nazionali e regionali dall’immunologo Andrea Crisanti, dell’Università di Padova, dal presidente della Fondazione David Hume Luca Ricolfi e dal giurista Giuseppe Valditara, dell’Università di Torino, e sottoscritto da Lettera 150, l’associazione che riunisce i 150 docenti sostenitori della riapertura in sicurezza.

“Se vogliamo – si legge nell’appello – che la imminente riapertura non sia effimera, se vogliamo evitare la chiusura di centinaia di migliaia di aziende, se vogliamo che milioni di lavoratori non perdano il posto di lavoro, occorre cambiare rotta. Bisogna iniziare subito a fare tamponi di massa”.

Andrebbero fatti più tamponi anche secondo l’epidemiologo Pierluigi Lopalco, responsabile della task force per l’emergenza Covid-19 in Puglia: “Bisogna uscire dal paradosso che fare più tamponi sia sinonimo di sicurezza e prevenzione”, tuttavia “ne vanno fatti di più rispetto al passato” e “in modo mirato, anche a tutti gli asintomatici entrati a contatto con persone con Covid, per circoscrivere il contagio”.

I tamponi dovranno avere un ruolo irrinunciabile anche nell’accompagnare i test sierologici, ha rilevato il virologo Francesco Broccolo, dell’Università Bicocca di Milano. I test sierologici non potranno infatti dare risposte efficaci se non saranno accompagnati dal tampone, ha osservato l’esperto.

Considerando poi che i test sierologici non forniscono una fotografia della presenza del virus in quel preciso momento, “nei primi giorni dal contagio ci saranno periodi finestra nei quali il risultato sarà negativo e quindi non potranno essere utilizzati come test diagnostici, ma come test complementari al tampone”.

Infine “sarebbe auspicabile – ha osservato – che fosse eseguito anche un tampone per escludere la possibilità di contagio” sui soggetti risultati positivi agi anticorpi IgG, che indicano l’infezione è avvenuta da due settimane a mese prima.

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