E’ il Brexit Day, il Regno saluta l’Ue e se ne va

Festa a Londra per i sostenitori della Brexit
Festa a Londra per i sostenitori della Brexit. EPA/NEIL HALL

LONDRA. – La Gran Bretagna saluta l’Ue e la Manica torna a essere un confine europeo, fra il continente e l’isola. E’ bastato lo scoccare di un minuto a chiudere una pagina di storia durata quasi mezzo secolo, dal 1973 a oggi: quella del matrimonio, d’interesse eppure non privo di frutti, tra Londra e Bruxelles.

La Brexit diventa realtà nella notte, l’Union Jack e la bandiera azzurra con le stelle europee si separano, fra i festeggiamenti colorati, ma non proprio oceanici del popolo euroscettico, le recriminazioni di gruppi ancor più sparpagliati d’irriducibili del fronte pro Remain e il rammarico di molti: nel Regno come in altri Paesi, Italia compresa.

Il suggello del Brexit Day è arrivato dall’uomo che in questi mesi è riuscito far saltare il banco e a mettere fine allo stallo, dopo aver già condotto in prima fila la campagna pro Leave del referendum del giugno 2016: Boris Johnson, controverso, ma vincente nell’ora destinata a segnarne l’eredità e in attesa del giudizio dei posteri.

In un discorso alla nazione anticipato da Downing Street il primo ministro Tory ha fatto sfoggio di ottimismo e richiami all’unità di un Paese profondamente lacerato, anche se in maggioranza forse sollevato dalla sensazione di aver dato almeno un primo taglio alle incertezze.

Ha definito questo passaggio – comunque epocale – “l’alba di una nuova era”, che “non segna una fine, ma un inizio”. Ha rivendicato l’addio come “una scelta sana e democratica” sancita “due volte dal giudizio del popolo”, nel 2016 come alle elezioni del dicembre scorso. E ha esaltato le speranze di un rinnovato slancio all’interno, di un ruolo europeo e globale “indipendente” del Regno, ma anche di una “cooperazione amichevole” di buon vicinato con gli ex partner dell’Ue.

In un contesto nel quale ha spronato i compatrioti a “scatenare tutto il potenziale” di una nazione che fu impero, a credere nel cambiamento come in una “meravigliosa” opportunità di “successo”. Non senza insistere sulla convinzione che la direzione intrapresa dal club europeo, pur “con tutte le sue ammirevoli qualità”, non fosse più adatta al destino britannico.

Parole accompagnate da toni di comprensione verso “il senso di ansia e di smarrimento” per quella metà di Paese che alla Brexit ha guardato come a un errore storico o a un azzardo. E dall’impegno del governo a cercare la strada per ricondurre ora il Regno “all’unità” in modo da poter guardare avanti “insieme”.

Le incognite del futuro restano d’altronde numerose e tutte da affrontare. A iniziare dal cruciale negoziato, da chiudere nei soli 11 mesi di transizione che Londra intende concedersi sino al 31 dicembre 2020 sulle relazioni post divorzio – commerciali in primis – con i 27; e dalle scommesse sulle parallele intese di libero scambio auspicate con gli Usa e con altre potenze terze.

Senza contare le promesse sul controllo dell’immigrazione, sugli investimenti in infrastrutture e servizi, sull’alleggerimento delle disparità a beneficio di aree depresse come il nord dell’Inghilterra, dove l’esecutivo ha tenuto nel Brexit Day un consiglio dei ministri simbolico nell’euroscettica Sunderland.

Traguardi da conciliare con le stime immediate di un possibile rallentamento ulteriore della crescita dell’economia e con non poche contraddizioni interne. Contraddizioni che oggi si sono riflesse nelle piazze di Londra e non solo. Dove sono scesi dapprima, fra recriminazioni e lacrime, gruppi di remainer non pentiti, rappresentanza di una fetta ampia di Paese che continua a masticare amaro, nonostante l’invito dei suoi stessi leader – da Tony Blair a Gina Miller – a riconoscere per ora la realtà d’una battaglia perduta.

E poi i sostenitori della Brexit, radunatisi a Westminster Square e dintorni per far sventolare – tra fuochi, brindisi e comizi – bandiere e simboli nazional-patriottici; ma anche, in almeno un caso, per bruciare vendicativamente un vessillo europeo.

E contraddizioni che continuano ad agitare le nazioni del ‘no’, l’Irlanda del Nord e soprattutto la Scozia, dove la first minister Nicola Sturgeon è tornata a invocare oggi stesso l’obiettivo di un secondo referendum secessionista. Intanto da Bruxelles e dalle varie capitali continentali, la consapevolezza del momento “storico” si è unita ad accenti di “tristezza” o rimpianto nelle voci di molti: da Giuseppe Conte a Emmanuel Macron, passando per il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, e per il commissario Paolo Gentiloni.

Mentre Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, ha tenuto a lasciare aperta la porta al “miglior partenariato possibile” con il Regno che va via, ma ricordando che nessun accordo potrà mai essere come “la membership”. E dicendosi certa che non sarà “lo splendido isolamento” la soluzione ai problemi del domani.

(di Alessandro Logroscino/ANSA)

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