Venezuela, la libertá in prigione

CARACAS – Il governo di Nicolás Maduro ha liberato nelle ultime ore sette detenuti politici, di una lista di 14 candidati fatta circolare da dirigente vicini al regime.

Una “mossa” già prevista da esperti e che comunque non cambia di molto la triste realtà dei quasi 400 detenuti, in galera per ragioni politiche. È questa la cifra più alta registrata in quest’epoca dell’anno, secondo l’autorevole Ong “Foro Penal” che segue passo passo l’evolversi della situazione dal 2014.

Voci filtrate negli ambienti vicini al governo avevano alimentato la speranza di una prossima liberazione di tutti o, almeno di una buona parte dei cittadini arrestati per “reati politici”, in occasione delle feste di Natale e Capodanno. Ma le attese sono state deluse.

 

Anzi, c’è stata una nuova “offensiva” delle autorità, per impedire la rielezione del presidente del Parlamento e presidente protempore della Repubblica, Juan Guaidó. Così hanno messo sotto processo giudiziario a quattro deputati: Jorge Alberto Millán, Hernán Claret Alemán, Carlos Alberto Lozano e Luis Stefanelli. Quasi contemporaneamente sette militari sono stati arrestati accusati dell’assalto ad una guarnigione militare nella Guayana. Assieme a questi, sono stati detenuti il deputato Gilber Caro ed il giornalista Victor Ugas, coinvolti secondo il governo nella sortita.

Romero aveva già avvertito a fine dicembre, in una intervista rilasciata al quotidiano spagnolo ABC, che Maduro preparava la scarcerazione di 30, 40 politici, per “fingere” una certa apertura e dare rilevanza ad un” tavolo di dialogo” promosso insieme a quattro esponenti politici di secondo piano che l’Opposizione, comunque, non riconosce come propri.

Una catena d’arresti

La lunga catena di arresti politici è iniziata nel febbraio del 2014, dopo le proteste contro il governo di Nicolás Maduro. Proteste provocate  dalla carestia e dalla violazione di diritti civili. Stando al rapporto della Procura, finirono in prigione 1.854 persone. Durante le contestazioni furono uccisi dalla Forze dell’Ordine 43 manifestanti. I feriti furono 486.

Negli anni seguenti, le carceri del paese, con alti e bassi, continuarono ad ospitare esponenti dell’opposizione e manifestanti. Il numero dei detenuti crebbe di nuovo a gennaio dell’anno scorso, per gli arresti avvenuti durante le manifestazioni contro la rielezione del Presidente Maduro; rielezione che non fu considerata legale da una cinquantina di paesi. Allora, stando a quanto reso noto dall’Alto Commissario dell’Onu, furono 850 detenuti, tra cui 77 minorenni.

Il numero dei prigionieri varia secondo i capricci delle autorità. Gli “addetti ai lavori” l’hanno battezzata “porta girevole”. In altre parole, ad ogni detenuto liberato corrisponde un nuovo arresto. Secondo la direttrice del Casla Institute, Tamara Suju, un totale di 40 persone sarebbero state arrestate recentemente dalla polizia politica e recluse nella prigione sotterranea di Boleita, a Caracas

Da capi militari a “twitteros”

Dal 2014 ad oggi, sono finite nelle celle del regime centinaia di cittadini, da esponenti della casta militari, a personalità dell’opposizione, da studenti a semplici cittadini, manifestanti pacifici, giornalisti, “influencer” e semplici utenti del twitter.

Il “Foro Penal” divide i prigionieri politici in tre categorie: quelli che rappresentano una minaccia politica individuale per il regime, quelli che appartengono ad un gruppo sociale da intimidire e quelli che sono “utilizzati dal governo per sostenere una campagna o una determinata narrativa politica del potere”.

 

 

Tra i tanti detenuti si annoverano ufficiali e sottufficiali delle Forze Armate, come ad esempio l’ex “eroe della rivoluzione” Raul Baduell, che liberò l’estinto presidente Hugo Chávez prigioniero dopo il fallito “golpe” del 2002; l’ex ministro dell’Interno Miguel Rodriguez Torres, esponente di spicco del “chavismo”, caduto in disgrazia.

Sono finiti dietro le sbarre l’ex sindaco di Caracas, Antonio Ledesma (poi fuggito all’estero come hanno fatto altri cinque sindaci dell’Opposizione); collaboratori di Guaidó come Roberto Marrero, attivisti come Lorent Saleh e giornalisti come Victor Ugas.

Fra i tanti casi, circa trenta giornalisti locali e stranieri sono stati “ospiti”, solo dal febbraio sorso, delle carceri venezolane, sette “Twitteros” sono stati arrestati per i loro commenti sulle reti sociali. Alcuni di loro hanno trascorso in prigione anche più di un anno, dopo essersi finalmente dichiarati colpevoli. Altri, invece, sono riusciti a fuggire.

Altro caso assai noto quello dei due pompieri (Carlos Varón e Ricardo Prieto) arrestati per deridere Maduro, comparandolo ad un asino in un video filmato in un paesetto di montagna e trasmesso sui social. Ambedue sono oggi in libertà condizionata.

Dei 388 detenuti politici, 370 sono uomini, 18 donne, 270 civili e 118 militari. Tutti adulti. I capi d’imputazione più comuni: tradimento alla patria, cospirazione, ribellione, concerto criminale, istigazione a delinquere, all’insurrezione ed all’odio.

L’inferno dietro le sbarre

Anche se qualche episodio, dato lo spiccato humour caratteristico del venezolano (come quello della parodia di Maduro con un asino) può essere motivo di distrazione, nelle prigioni, stando alle testimonianze di chi ne è stato oggetto e del crudo rapporto presentato da Michel Bachelet, echeggiano le grida di dolore dei detenuti sottoposto a sevizie, crudeltà, violazioni e torture. Non mancano video dei soprusi; video raccolti dal Onu, dall’Osa e da organismi locali di difesa dei diritti umani.

Nei primi nove mesi 2019, è stato registrato un aumento di 508% delle vittime delle torture – 554 vittime – rispetto al 2018, ha denunciato il “Programa Venezolano de Educación-Acción en Derechos Humanos” (Provea). Delle 554 vittime, 126 sono detenuti politici, specialmente militari.

A marzo dell’anno scorso, Michele Bachelet, Alta Commissaria per I Diritti Umani all’Onu ha denunciato in un rapporto casi di “possibili esecuzioni sommarie, torture e maltrattamenti”.

Contemporaneamente all’Osa si trasmise un video dell’ex membro della direzione d’intelligenza militare (Dgcim), Ronald Dugarte, con persone insanguinate e stese sul pavimento. Dugarte ha dichiarato che decine di detenuti sono torturati frequentemente con scariche elettriche, tecniche di asfissia, percosse. Inoltre, a volte a loro iniettate sostanze chimiche.

Nel 2018, una relazione dell’Osa raccolse 72 casi accertati di torture; casi documentati da Ong autorevoli. L’“Associazione Venezuolana per una Educación Sessuale Alternativa” (AVESA)” deunciò 25 casi di violenza sessuale a manifestanti arrestate.

Sono molte le storie che hanno nome e cognome.  Tanti i dettagli delle crudeltà ed abusi  raccontati da chi le ha vissute: da militanti di organizzazioni politiche a studenti o semplici manifestanti, genitori e casalinghe. L’ ultima denuncia recente alla Procura, risale alle prime ore del 2020, è stata fatta da Ana Maria Da Costa, sorella del detenuto politico Vasco Da Costa. Questi sarebbe stato sottoposto a presunte torture nel carcere militare di Ramo Verde.

Via al cimitero

Non tutti i prigionieri politici sopravvivono alle disumane condizioni di vita nelle celle venezuelane. E così sono morti Juan Sánchez (2004); Rodolfo Gonzales “Le Aviador” (2015); il consigliere municipale Carlos Garcia (2017); il consigliere municipale Fernando Albán (2018), “precipitato” da una finestra nella sede della “Tomba”  ed il capitano. Acosta Arévalo (2019). Dall’autopsia di quest’ultimo è emersa la frattura di 16 costole del setto nasale e di un piede, escoriazioni alle spalle, gomiti e ginocchi, ematoma nelle gambe, nei muscoli abduttori, lesioni provocate probabilmente da frustate alle schiene e segni di bruciature ai piedi. Si presume che quest’ultime provocate da scosse elettriche.

Fabio Farina

 

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