Nodo ruoli Di Maio e Zingaretti, rebus Viminale e Mef

Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti in un immagine del 10 dicembre 2018.
Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti in un immagine del 10 dicembre 2018. . ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

ROMA. – L’era giallo-rossa potrebbe essere, innanzitutto, quella del governo di un Giuseppe Conte più forte. E’ a lui, nelle prossime ore, che il Pd ma soprattutto il M5S potrebbe affidare onori e soprattutto oneri di una trattativa che, rispetto a 24 ore fa, sembra più in discesa ma non è ancora risolta.

Perché il grande nodo del Conte bis porta, a cascata, una serie di problemi dirimenti, a partire dai ruoli di Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti in un governo guidato, come sottolineano tra i Dem, comunque da un esponente del M5S e non da una personalità “venuta dalla luna”.

I tormenti legati ad un’intesa fino a qualche settimana fa legata alla fantapolitica sono tutt’altro che evaporati. Non tutti, nel Movimento, sono convinti dell’abbraccio ai Dem. Qualcuno mugugna previsioni di nuove perdite di consenso che il ritorno alle urne avrebbe potuto invece rinvigorire.

E, sebbene il vertice dello stato maggiore del pomeriggio abbia diradato gli ultimi dubbi di Davide Casaleggio c’è comunque il nodo del voto su Rousseau: imprescindibile per la grandissima parte dei vertici del M5S ma difficilmente collocabile a cavallo delle consultazioni al Colle.

Nel Pd c’è chi definisce una “palla avvelenata” l’intesa sul Conte-bis che potrebbe siglare Zingaretti. Un’intesa contro la quale è stato lo stesso segretario a dirsi contrario sin dall’inizio, ma verso la quale il governatore del Lazio si sta dirigendo sospinto, con veemenza, da una parte via via più ampia del suo partito.

Tanto che c’è chi abbozza un’ipotesi: che Zingaretti, dopo aver siglato l’intesa, si dimetta da segretario. Ma è un’ipotesi seccamente smentita dal Nazareno. E’ aperto, invece, il discorso dell’ingresso di Zingaretti al governo, anche se il segretario per ora appare determinato a tenersi fuori.

Nel M5S, però, non sembrano esserci veti a un suo ruolo da vicepremier. Su un punto, invece, il Movimento non cederà: che Di Maio resti nel governo. Con l’avvicinarsi del Conte-bis si fa strada il totonomi e la guerra dei ministeri resta un macigno sulla strada dell’intesa. Per il leader del M5S la tentazione Viminale c’è ma è probabile che alla fine Di Maio scelga uno dei due dicasteri finora retti – Mise o Lavoro – o si diriga alla Difesa.

Molti ministeri chiave, con Conte premier, potrebbero andare al Pd. Se Zingaretti restasse fuori la carica di vicepremier potrebbe andare a uno dei big della maggioranza Dem: Andrea Orlando (accreditato anche come sottosegretario alla presidenza), Paola De Micheli (in pole anche per il Mise), Dario Franceschini o addirittura Piero Fassino.

Nell’esecutivo potrebbe entrare Lorenzo Guerini (magari con delega ai servizi) mentre tra i renziani resterebbero fuori i big ma potrebbero entrare esponenti come Ettore Rosato, Anna Ascani o Luigi Marattin.

Di Maio ha il problema di mantenere al governo uomini “fidati” e di far fronte alla carica degli ortodossi, tra i primi sponsor dell’accordo. Probabile, quindi, che entrino Stefano Patuanelli (al Mit?) e Francesco D’Uva ma il leader farà di tutto per mantenere Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede.

Su Mef e Viminale la partita è aperta tra tecnici ed esponenti Pd: nel primo caso, come successore di Salvini uno dei più accreditati è Franco Gabrielli. E continuano a circolare rumours sul fatto che Di Maio punti proprio al ministero di Salvini.

Solo ipotesi finora, legate al successo di una trattativa che porta con sé un carico di dubbi. Lo stesso Di Maio si è chiuso, in questi giorni, in un assordante silenzio, stretto tra i filo-leghisti o i filo-voto (come Di Battista, Paragone, Bugani, lo stesso Casaleggio secondo alcuni) e tra chi, a partire da Beppe Grillo, ha benedetto un accordo con il Pd con Conte bis facendo asse con uno dei tessitori di un governo giallo-rosso con Conte premier: Roberto Fico.

Ma dopo tanti tentennamenti Di Maio ha chiuso il forno leghista: troppo rischioso tornare con Matteo Salvini, ritenuto dal Movimento non più affidabile. E ora per tornare indietro e forse troppo tardi. L’accordo con il Pd è un piano inclinato forse non più raddrizzabile.

(di Michele Esposito/ANSA)

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