May avverte l’Ue: “Meglio no deal d’un cattivo accordo”

Theresa May durante il vertice di Strasburgo..
Theresa May durante il vertice di Strasburgo.. EPA/CHRISTIAN BRUNA

LONDRA. – “Umiliata” e offesa al vertice di Salisburgo, in quella che i media del Regno raccontano unanimi come “un’imboscata” dei leader Ue, Theresa May rischia ormai la testa in patria. Ma si gioca la carta del contrattacco tornando ad evocare l’ombra di una hard Brexit: d’un divorzio ‘no deal’, traumatico eppure preferibile, avverte, a “un cattivo accordo”. La guerra delle parole, in pieno stallo negoziale con Bruxelles e a 200 giorni dall’ora X della formalizzazione dell’addio ai 27, tocca l’acme all’indomani del gelido epilogo del summit in terra d’Austria.

Un appuntamento segnato dalla bocciatura senz’appello delle proposte della premier britannica da parte del presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, e dalle acide rampogne di Emmanuel Macron: additati non a caso oltremanica come i nuovi nemici numero uno, anche senza arrivare agli eccessi del Sun di Murdoch che li traveste da gangster bollandoli alla stregua di “topi di fogna” (dirty rats).

L’atmosfera, non c’è dubbio, è intorbidita da manovre tattiche e condizionamenti interni su tutti i fronti che magari potranno allentarsi in extremis. Ma al momento i toni sono (o sembrano) a un passo dalla rottura. Per May c’è del resto da affrontare pure l’arena del congresso Tory, in agenda giusto fra una settimana a Birmingham, con i falchi brexiteers dissidenti, da Boris Johnson in giù, paradossalmente ringalluzziti dagli echi salisburghesi e pronti a riprendere a picconare la leadership dell’erede (scolorita) di Margaret Thatcher.

Ecco così che, quasi ad anticiparli, lady Theresa prova a riproporsi oggi in prima persona nel muro contro muro. In un solenne discorso alla nazione da Downing Street, ribadisce di volere un accordo amichevole, ma non a qualunque prezzo. E ribalta sull’Ue l’onere della sfida di superare “l’impasse” con un compromesso (ancora “possibile” per Tusk) sui nodi cruciali irrisolti: le future relazioni economiche con i 27 e i meccanismi per continuare a garantire un confine aperto fra Irlanda e Irlanda del Nord nel solco degli storici accordi di pace del Venerdì Santo.

Insiste sulla “buona fede” delle sue profferte, mentre respinge “le due sole opzioni” lasciate sul tavolo dai partner come inaccettabili minacce alle linee rosse davvero invalicabili: no a “rovesciare il risultato del referendum” e no a “sgretolare il mio Paese”.

Il modello norvegese, con la permanenza di Londra nell’Area Economica Europea , non va bene – argomenta – perché “tradotto in inglese semplice” significherebbe fare del Regno Unito un Paese vassallo, “sottomesso a tutte le regole dell’Unione, a un’immigrazione incontrollata dall’Ue e all’impossibilità di stringere trattati commerciali con Paesi terzi”: una “presa in giro” del mandato referendario del 2016.

Mentre il modello alternativo canadese di un accordo di libero scambio sarebbe “persino peggio”, poiché associato da Bruxelles – con la garanzia d’un backstop vincolante – “alla permanenza di fatto nell’Unione Doganale e nel Mercato Unico della sola Irlanda del Nord”: e dunque alla sua “separazione” dalla Gran Bretagna.

Ma soprattutto Theresa May, mentre conferma le garanzie sui diritti dei cittadini europei (e italiani) residenti sull’isola anche “nell’eventualità di un no deal”, pretende “rispetto”. Quel rispetto, perduto ieri a Salisburgo, che è precondizione di ogni “buon rapporto” futuro, ammonisce.

E che intanto bisogna ritrovare però a Birmingham almeno nel partito. Pena passare la mano ai duri di casa sua oppure, sull’altra sponda, direttamente agli oppositori: al fronte europeista che sogna la rivincita di un referendum bis o più verosimilmente al leader socialista del Labour, Jeremy Corbyn, che stasera ne ha per tutti.

Per la premier rivelatasi “incapace di portare a casa un buon accordo sulla Brexit”; per i Conservatori impegnati “a litigare fra loro più che a negoziare con l’Ue”; e per la stessa Ue, invitata a mettere fine a sua volta “ai giochi politici, perché il ‘no deal’ non è un’opzione”. O non dovrebbe esserlo.

(di Alessandro Logroscino/ANSA)

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