Trump ritira l’America dall’accordo trans-Pacifico

(EPA/SHAWN THEW)
(EPA/SHAWN THEW)

WASHINGTON. – Addio Tpp: Donald Trump inaugura la sua era protezionistica firmando nello studio Ovale un ordine esecutivo per uscire dalla Trans-Pacific Partnership, l’accordo di libero commercio tra Usa e 11 Paesi del Pacifico che rappresentano il 40% dell’economia mondiale, esclusa la Cina, che ora gongola.

Poi sigla altri due provvedimenti per segnare la svolta: chiude i rubinetti dei fondi federali alle Ong internazionali che praticano aborti o forniscono informazioni a riguardo e congela le assunzioni governative, fatta eccezione per le forze armate, per ridurre spese e burocrazia.

Sono tutte mosse simboliche, le ultime due neppure inedite, ma servono a lanciare un messaggio forte nel ‘day one’ della presidenza Trump mentre il neo presidente è sotto attacco su vari fronti. Ad esempio la causa preannunciata da alcuni avvocati ‘etici’ contro l’accettazione di denaro da governi stranieri da parte dei suoi hotel, in presunta violazione di una clausola della costituzione, liquidata dal magnate come “totalmente priva di merito”.

Oppure l’attacco inaspettato di WikiLeaks, che ha incoraggiato la fuga di notizie sulla sua dichiarazione dei redditi sostenendo che la violazione della promessa di Trump di diffonderla “è molto più ingiustificata della scelta di Hillary Clinton di tener nascoste la trascrizioni dei suoi discorsi per Goldman Sachs”.

Ma a tenere banco è soprattutto la guerra dei media per le ‘bufale’ del suo portavoce Sean Spicer. Convocando all’improvviso un briefing al quale si era presentato con più di un’ora di ritardo, il ‘press secretary’ aveva criticato duramente la stampa accusandola di essersi inventata la controversia tra il neo presidente e l’intelligence e di aver ridimensionato i numeri della partecipazione record (“la più seguita di sempre”) all’insediamento di Trump.

Affermazioni ribadite da Spencer anche nel suo primo briefing – con domande – ma facilmente smontate con la tecnica del ‘fact checking’ da tv e giornali, secondo cui manipolare i fatti in questo modo rischia di minare la credibilità stessa della Casa Bianca.

Ma è stata una frase di Kellyanne Conway a gettare benzina sul fuoco: per la consigliera di Trump, quelle di Spicer non erano falsità ma “fatti alternativi” presentati dalla Casa Bianca rispetto a quelli riportati dai media. Insomma, verità parallele, suonate però come “post verità”.

Parole trasformate subito in un hashtag e diventate virali sui social, dove sono fiorite ironie e sarcasmi di ogni tipo: “Giù è su”, “il cielo è rosso”, “I cani partoriscono gatti”, “Oggi non è lunedì”, tutte provocazioni accompagnate dalla precisazione “alternative facts”. Qualcuno si è spinto ad evocare il romanzo orwelliano ‘1984’ sui regimi totalitari.

Anche gli editorialisti hanno picchiato duro. Jim Rutenberg sul New York Times ha accusato Trump di disinformazione: “Roba da dittatori, repubbliche delle banane e stati falliti”. Sul Washington Post l’esperta di media Margaret Sullivan ha accusato Spicer e Trump di aver trasformato la presidenza in un reality, osservando che nel suo primo giorno alla Casa Bianca il tycoon ha dimostrato di essere ancora ossessionato dal fatto di essere, come lui stesso si è definito, “una macchina di rating”.

E intanto il New York Times fa mea culpa: “Siamo stati troppo timidi nella decisione di non pubblicare il materiale del dossier russo prima delle elezioni”, ha dichiarato la Public Editor Liz Spayd, con l’implicita ammissione che, facendolo, avrebbero potuto evitare al paese una presidenza Trump.

Il neo presidente ha cercato di oscurare le polemiche con l’iperattivismo della sua prima giornata di lavoro dopo il weekend dell’inaugurazione. E ha voluto confermare che intende onorare le sue promesse elettorali smantellando l’eredità Obama: dopo il primo ordine esecutivo per strangolare la riforma sanitaria del predecessore, è toccato al Tpp, anche se non era ancora stato ratificato dal Congresso. E a breve sarà il turno dell’accordo di libero commercio Nafta, che Trump intende rinegoziare incontrando nei prossimi giorni sia il presidente messicano che il premier canadese.

Poi Trump ha incontrato anche i leader del business (Dell, Whirlpool, Ford, Us Steel, Space X), rilanciando il suo slogan “produci e assumi americano” e promettendo una forte riduzione delle tasse (dal 35% al 15%-20%) e delle regole (75%, forse anche di più”) ma anche alti dazi doganali per chi produce fuori dai confini ed esporta poi negli Usa. In agenda alla Casa Bianca ci sono gli ad di Ford, General Motors e Fca, Sergio Marchionne.

(di Claudio Salvalaggio/ANSA)

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