Le carceri sono lo snodo della radicalizzazione islamica

ROMA. – Argomentazioni a sostegno della “guerra santa” fino a giustificare le azioni commesse in nome dell’Isis; colpevolizzazione degli ebrei; forme di catastrofismo radicale che portano a interpretare attentati e fatti recenti come la realizzazione delle profezie del Corano. Il ritrovamento di manoscritti contenenti “nasheed”, canti tipici che esaltano l’operato dei martiri. E ancora: la giustificazione dei kamikaze perché “coloro che si fanno esplodere uccidendo altre persone non commettono nessuna colpa perché agiscono in nome di Dio”; o la manipolazione nel guidare la preghiera collettiva.

E poi l’iter di radicalizzazione in tre fasi: “identificazione” nei leaders già detenuti; “indottrinamento” e adesione alla sharia; “manifestazione”, con atteggiamenti che vanno dalla richiesta ai familiari di vestirsi in modo tradizionale all’attesa della scarcerazione per unirsi ai ‘fratelli’ nella jihad.

Sono alcuni comportamenti rilevati nelle carceri italiane dal Nic, il Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, che da tempo studia il fenomeno, anche attraverso fonti confidenziali, per inquadrarlo in una casistica che aiuti a individuare soggetti a rischio.

Soggetti come Saber Hmidi, il tunisino raggiunto adesso da un arresto in carcere per sospetta attività di reclutamento in cella. Nel penitenziario di Salerno proprio lui era un detenuto imam che guidava la preghiera collettiva.

I risultati del Nic sono confluiti in una relazione del Dipartimento amministrazione penitenziaria che censisce 373 reclusi sotto osservazione per sospetta radicalizzazione e 39 terroristi. Il documento evidenzia che a Rebibbia – dove Hmidi è rinchiuso con altri 1.400, di cui 500 stranieri – “gli atteggiamenti ostili dei detenuti di origine araba e religione musulmana” verso gli agenti “si registrano sempre più con maggior frequenza, trovando agio nell’elevato numero di soggetti presenti e nel vigente regime aperto delle sezioni detentive, che fornisce loro ampio modo per sodalizzare e coalizzarsi”.

Il proselitismo in carcere può passare anche dalla preghiera: il Nic ha individuato imam che manipolavano gli altri detenuti. “Se dovesse passare un agente di custodia, una donna, un medico – diceva uno di loro – questi non sono nulla davanti a Dio. L’agente di custodia è un cane, infedele, mangia il maiale e finirà all’inferno”. “Chi collabora con le forze dell’ordine come informatore deve raccontare quello che ha fatto”.

I detenuti imam nelle carceri sono 148. I più svolgono un’attività giudicata non pericolosa, altri sono sospetti: lo stesso Hmidi, il tunisino arrestato, era nella lista degli imam. Anche i cosiddetti “promotori” – la relazione ne indica 81 – sono sotto la lente: si tratta si soggetti che si fanno notare come portavoce delle istanze degli altri detenuti, ma in alcuni casi fanno presagire l’esistenza di un processo di radicalizzazione o una capacità di condizionamento degli altri.

(di Eva Bosco/ANSA)

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