Bianchi e arrabbiati, il popolo che ha trascinato Trump

Bianchi e arrabbiati, il popolo che ha trascinato Trump
Bianchi e arrabbiati, il popolo che ha trascinato Trump
Bianchi e arrabbiati, il popolo che ha trascinato Trump

NEW YORK. – L’America profonda, bianca, arrabbiata e inquieta di fronte alle conseguenze della globalizzazione, dell’immigrazione, del terrorismo. E’ questa “maggioranza silenziosa”, come l’ha chiamata lui stesso, a consentire a Donald Trump di arrivare alla Casa Bianca vincendo contro tutti: i media americani e internazionali, Wall Street, la Silicon Valley, Hollywood, i sondaggi che alla vigilia lo davano in svantaggio.

E contro il suo stesso partito, che ha accettato a denti stretti una nomination conquistata facendo a pezzi rivali e Dna repubblicano: nessuno dello stato maggiore del Grand Old Party si è mai fatto vedere con lui in campagna elettorale, né tantomeno star dello spettacolo o ‘surrogati’ di prestigio come quelli su cui ha potuto contare Hillary Clinton, a partire da Barack Obama e Michelle.

Trump ha vinto da solo, con il suo solido ‘clan’ famigliare, presentando fin dalle primarie la sua terza moglie, l’ex modella slovena Melania, come la prossima first lady e la prima di origine straniera. Non importa se resta qualche ombra sulla regolarità della sua storia di immigrata e se ha copiato il discorso di Michelle alla convention repubblicana. O se ha promesso di occuparsi del gentil sesso, come se le accuse di molestie sessuali contro il marito da parte di una dozzina di donne non esistessero.

Per gli elettori di Trump non conta il passato, non sono rilevanti le bancarotte del tycoon, la sua maxi elusione fiscale, il suo comportamento libertino e offensivo verso le donne, le presunte truffe della sua università. Conta il futuro, la promessa di un’America sicura e nuovamente grande, come recita l’iconico slogan della sua campagna.

Con lui ha vinto un’America alla ricerca dell’identità perduta, quella che ha vissuto la prima presidenza nera come una usurpazione, che ha perso il posto di lavoro per le delocalizzazioni delle grandi aziende e non crede più all’American dream, che associa gli immigrati alla criminalità e i musulmani al terrorismo.

Un’America ripiegata su stessa, che vuole un muro col Messico e un disimpegno internazionale per chiudersi nel suo fortino come se fosse una Trump Tower, che ama le armi facili, il politicamente scorretto, la rissa volgare, la rivolta contro un establishment di cui Hillary Clinton era l’incarnazione più longeva e controversa.

Il tycoon ha costruito il suo successo cavalcando le frustrazioni dei colletti blu e degli operai della ‘rust belt’, la ‘cintura della ruggine’ dove ha promesso di riportare il lavoro perduto, abbattendo il ‘blue wall’ di stati come Michigan e Wisconsin. Ma ha saputo intercettare il malessere latente a tutte le latitudini, dalla West alla East Cost.

La chiave per la Casa Bianca sono stati i voti dei bianchi (più uomini che donne), che in queste elezioni rappresentavano sino al 70% dell’elettorato: il 58% è andato a lui. La maggioranza sono persone con educazione universitaria.

Il magnate è riuscito in parte a fare breccia anche tra le minoranze, con l’8% tra i neri, il 29% tra gli asiatici e la stessa percentuale tra gli ispanici che aveva tanto vituperato. In particolare nella cruciale Florida fondamentale è stato il voto repubblicano di tantissimi ‘cubani’, arrabbiati per la distensione concessa da Obama all’odiato regime castrista.

Trump insomma è riuscito ad interpretare quella maggioranza che vede il Paese “sulla cattiva strada”, anche se paradossalmente Obama è ai vertici della sua popolarità e l’economia si è ripresa alla grande dalla crisi del 2008. Ma molti sono rimasti esclusi, “dimenticati” e delusi dall’establishment.

La ‘maggioranza silenziosa’ si è fatta sentire fragorosamente nelle urne dopo che il tycoon l’ha sedotta come in un reality show e guidata fiutando il vento populista che arriva da oltreoceano. Ben prima della Brexit.

(di Claudio Salvalaggio/ANSA)

Lascia un commento