Gay discriminati, l’orientamento sessuale pesa sulla carriera

Nella foto d'archivio la bandiera multicolore in un Roma Gay Pride
Nella foto d'archivio la bandiera multicolore in un Roma Gay Pride. ANSA/ GIORGIO ONORATI

ROMA. – Clima ostile, aggressioni, discriminazioni e minacce nel luogo di lavoro e non solo: questo e altro emerge dalla rilevazione, condotta dall’Istat e l’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) nel 2020-2021 su oltre 21 mila persone Lgbt residenti in Italia in unione civile o già unite civilmente.

La gran parte (il 77%) lavora o ha lavorato, ha un alto livello di studi (quasi il 40% la laurea), svolge una professione ad alta o media qualifica, eppure 1 su 5 ritiene che il proprio orientamento sessuale l’abbia svantaggiato nel corso della vita lavorativa in termini di avanzamenti di carriera e crescita professionale e sempre 1 su 5 dichiara di aver vissuto un clima ostile o un’aggressione nel proprio ambiente di lavoro.

Il 26% delle persone occupate o ex-occupate dichiara che essere omosessuale o bisessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti: carriera e crescita professionale, riconoscimento e apprezzamento, reddito e retribuzione.

A lamentarsi sono soprattutto i più giovani. Il 40,3% evita di parlare della propria vita privata ai colleghi, per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale; e 1 su 5 afferma di aver evitato di frequentare persone dell’ambiente lavorativo nel tempo libero per non rivelare il proprio orientamento sessuale.

Nella quasi totalità dei casi la famiglia di origine e gli amici delle persone in unione civile o già in unione è a conoscenza dell’attuale orientamento sessuale, ma per alcuni degli intervistati la decisione di renderlo noto (ovvero il coming out) ha generato una reazione negativa da parte dei genitori.

La madre ha mostrato ostilità o rifiuto in più di un quinto dei casi (21,8%), in misura maggiore per le donne (28,8% a fronte del 18,1% degli uomini). Una quota appena meno elevata riguarda la reazione negativa dei padri (19,8%), con un’incidenza superiore per gli uomini (20,4% contro 18,7%).

Quando il figlio o la figlia si è unito/a civilmente, la madre e il padre non hanno accolto il partner come parte della famiglia, rispettivamente, nel 4,8% e nel 6,4% dei casi. Il 38,2% delle persone in unione civile o già in unione che si sono definiti omosessuali o bisessuali e che vivono abitualmente in Italia ha subito, per motivi legati al proprio orientamento sessuale, almeno un episodio di discriminazione, verificatosi, in oltre la metà dei casi, negli ultimi tre anni, in altri contesti di vita, differenti dal lavoro: il 16,8% degli individui si è trasferito in un altro quartiere, altro Comune o all’estero per poter vivere più tranquillamente la propria omosessualità o bisessualità (il 12% in un altro comune, il 3,4% all’estero).

Il 16,7% è stato trattato male dai vicini di casa; Il 13,1% dichiara di essere stato trattato/a meno bene degli altri in uffici pubblici, mezzi di trasporto negozi; il 10,4% ha avuto problemi in ambiente sanitario da medici, infermieri o altro personale dei servizi socio-sanitari. A coloro che hanno figli (biologici e non) è capitato di essere evitato dai genitori di altri bambini a causa del proprio orientamento sessuale (12,4%) e ai figli stessi di essere derisi (11,3%) o esclusi (6,5%) da altri bambini.

Tra le richieste degli intervistati, l’importanza di realizzare iniziative di educazione, informazione e sensibilizzazione alle tematiche LGBT+ nelle scuole; ma anche di poter accedere alla possibilità di adozione per single e soprattutto il riconoscimento legale di entrambi i genitori per i figli di coppie omogenitoriali.

(di Valentina Roncati/ANSA)

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