Davos: da Tria a Le Maire, si sgonfia il caso Roma-Parigi

Il ministro dell'Economia, Giovanni Tria durante il suo intervento a Davos.
Il ministro dell'Economia, Giovanni Tria durante il suo intervento a Davos.

DAVOS. – Sorta sulle ali della teoria del franco Fca – evocata dai vicepremier Salvini e Di Maio – secondo cui la Francia sfrutta l’Africa, la querelle diplomatica fra Italia e Francia sembra aver già toccato il suo apice con la convocazione dell’ambasciatore italiano da parte di Parigi tre giorni fa. Per sgonfiarsi progressivamente a Davos, dove tanto gli italiani, quanto i francesi, per non parlare della Commissione europea, l’hanno già relegata al rango, inferiore, di semplice querelle elettorale in vista delle europee di maggio.

Sarà l’urgenza dei temi globali del Forum economico mondiale – come la possibilità “al 50%” di una recessione globale nel 2020 evocata dal Ceo di Goldman Sachs, ipotesi che avrebbe conseguenze devastanti per tutti. Sarà la distanza delle Alpi svizzere da Roma. Fatto sta che, dopo le ultime salve di cannone, la querelle diplomatica vista da Davos ha progressivamente perso di rilevanza.

Ci pensa il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, a spiegare “non credo che i dossier economici (come Fincantieri o Alitalia) possano risentire di quello che per ora è solo uno scontro mediatico”. Tria non vede neanche “contrapposizione” fra l’asse franco-tedesco rilanciato dal trattato di Aquisgrana due giorni fa, e un’Italia che appare a molti più isolata rispetto ai maggiori partner europei: il trattato dunque non è contro l’Italia, nonostante Germania e Francia si siano rivolte insieme all’Antitrust europeo sul dossier Fincantieri.

Bruno Le Maire, il suo collega d’Oltralpe, sempre a Davos taglia corto: “non entriamo in polemiche puerili con l’Italia. L’Europa ha davanti a sé grandi sfide, e abbiamo bisogno che ognuno abbia senso di responsabilità davanti a queste sfide”. E anche Pierre Moscovici, commissario Ue agli Affari economici, parla di una crisi, quella fra Roma e Parigi, “fatta di sole provocazioni e che non ha senso: è assurdo e deve finire”.

E neanche il ministro degli Esteri Enzo Moavero, pressato al Wef sul fatto che l’Italia del governo giallo-verde sia isolata in Europa, si scompone: “mettiamo le cose nel loro giusto contesto”; spiega a un panel sul futuro dell’Europa: “ci sono gruppi, è un arcipelago di diverse isole” e il rischio, piuttosto, è che non ci sia la dialettica politica normale, che ci siano dei tabù. Insomma quello fra Roma e Parigi è un “dibattito politico europeo” che varca i confini.

A riattizzare la polemica con la Francia, sorta di fatto sulla scia di una teoria che per anni era rimasta relegata ai siti internet più cospirazionisti, secondo cui la Francia imporrebbe una ‘tassa’ ai Paesi africani trattenendo riserve della valuta, non sono valse i tweet di Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia che torna sul nodo delle reali motivazioni della guerra di Parigi a Gheddafi. A Davos tanto Tria quanto gli altri ‘policymaker’, europei e non, sembrano essere preoccupati da altro.

Ad esempio, nel caso del ministro italiano, dall’allarme lanciato lunedì dal Fmi che aveva messo l’Italia fra i rischi globali, che Tria giudica frutto di un “drammatizzare in modo eccessivo”. Dalla necessità di rilanciare gli investimenti europei e, in Italia, sbloccare le opere pubbliche, tav o non tav. Dall’ipotesi che anche la Commissione Ue abbassi le sue stime di crescita sull’Italia (attualmente all’1,2% per il 2019, quando ormai il Fmi ha tagliato a 0,6%) con conseguenze che, dice Moscovici, “dovremo valutare”.

Riferimento alla possibilità che i parametri di bilancio possano essere scombussolati, cui Tria replica escludendo “una manovra correttiva legata al rallentamento della crescita” essendo gli obiettivi parametrati sul deficit strutturale. Temi più concreti, dunque, con sullo sfondo un’economia europea, e globale, che ha un sacco di problemi che a Davos saltano fuori ad ogni angolo. Come quando Christine Lagarde, direttore generale del Fmi, avverte che se la Cina rallenta un po’ va bene, “ma se il rallentamento dovesse essere veloce, sarebbe un vero problema”.

La Cina e la sua crescita piena di interrogativi. La guerra dei dazi. Brexit, un labirinto di cui il gotha finanziario riunito fra le nevi svizzere non riesce ancora a capacitarsi. E l’armageddon lanciato da mesi dal ‘Dr Doom’ Nouriel Roubini, quella recessione mondiale possibile nel 2020 che finora pochi osavano evocare. Finché non è arrivato David Solomon di Goldman Sachs a rompere il tabù: la probabilità è del 50%. Se si verificasse davvero, in Europa, a Washington o Pechino sanno che è meglio dimenticare il superfluo e preparare l’ombrello.

(dell’inviato Domenico Conti/ANSA)

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