Venezuela verso il default?

Venezuelan soldiers speak to the crowd as they queue to try and buy cornmeal flour at a supermarket in Caracas March 15, 2016. REUTERS/Carlos Garcia Rawlins -------------------------------------------------------------------------------------------

Venezuelan soldiers speak to the crowd as they queue to try and buy cornmeal flour at a supermarket in Caracas March 15, 2016. REUTERS/Carlos Garcia Rawlins -------------------------------------------------------------------------------------------

di Mauro Bafile

CARACAS – Il Tavolo dell’Unità che riunisce i partiti di opposizione in Venezuela, può tirare un sospiro di sollievo. Il dialogo, iniziato domenica scorsa alla presenza di un accompagnatore d’alto profilo come lo è la Santa Sede, è stato il salvagente provvidenziale che gli ha permesso di uscire indenne, anzi rafforzato, dall’angolino nel quale si era inspiegabilmente cacciato.

Obbligato probabilmente dall’ala radicale, la meno numerosa ma sicuramente la più attiva e rumorosa dell’Opposizione, si era ritrovato con le spalle al muro, praticamente obbligato a convocare una manifestazione di protesta alle porte del palazzo presidenziale.

La protesta, e di questo pochi ancora nutrono dubbi, non sarebbe mai arrivata al Palazzo di Miraflores, principale ufficio del capo dello Stato e sede ufficiale del governo che ha iniziato a costruire, nel 1884, il conte italiano Giuseppe Orsi di Mombello durante il mandato del presidente Joaquín Crespo.

Troppe le barriere da superare. La prima, ovviamente, quella psicologica rappresentata dalla paura. C’è da chiedersi: quanti avrebbero aderito ad una manifestazione considerata estremamente pericolosa? Quanti avrebbero accompagnato il corteo fino alle porte del palazzo presidenziale? Quanti, invece, avrebbero abbandonato il percorso stabilito e sarebbero tornati a casa o si sarebbero rifugiati in un locale pubblico dal quale seguire gli sviluppi della protesta?

Si sa, una cosa è fare la voce grossa a casa e un’altra nella tana del lupo. Ma anche nell’ipotetico caso di una manifestazione oceanica, come le ultime organizzate dal “Tavolo”, e in quello, sempre ipotetico, di riuscire a vincere la barriera psicologica della paura, poi, ben altri e più reali sarebbero stati gli ostacoli da vincere.

Ovvero, i cordoni della Polizia Bolivariana e della Guardia Nazionale, i “colectivos” – sorta di bande di motociclisti armati fino ai denti che ricordano le squadracce fasciste degli anni bui della storia italiana – e, infine, i reparti dell’esercito preposti alla sicurezza del palazzo presidenziale e del presidente della Repubblica, con i loro mezzi blindati.

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La realtà, quindi, ci avrebbe messo probabilmente di fronte ad una piccola manifestazione di qualche centinaio di persone, per lo più studenti e militanti dei movimenti radicali, repressa con estrema violenza, qualche ferito, nel peggiore dei casi anche qualche morto e tanti arresti.

Un risultato disastroso per il Tavolo dell’Unità che si sarebbe squalificato a livello internazionale e che avrebbe così gettato all’ortica i successi politici ottenuti nelle ultime settimane; successi che hanno obbligato il governo ad accettare il dialogo con la presenza dell’emissario del Vaticano. Se non altro, per guadagnare tempo ed avere una boccata d’ossigeno.

Dal canto suo, il Parlamento, nel sospendere il “processo politico” al capo dello Stato, ha evitato una brutta figura con ricadute negative sulla sua immagine nazionale e internazionale. Il Tavolo dell’Unità, come il governo dell’estinto presidente Chávez all’indomani del colpo di Stato, gode oggi della simpatia internazionale e il Parlamento, in maggioranza di opposizione, si mostra al mondo come vittima di un sistema democratico apparentemente sull’orlo dell’implosione per colpa di un governo che avrebbe sequestrato tutti i poteri pubblici rompendo il delicato equilibrio di pesi e contrappesiche con tanto sforzo erano riusciti a costruire i padri Costituenti.

Ora con le spalle al muro, e senz’altri argomenti credibili, sembrerebbe invece il governo del presidente Nicolás Maduro che tra tanta tensione ha deciso di lanciare un programma radiofonico dedicato alla “Salsa”. Così, mentre il Vaticano ricuce delicatamente la matassa diplomatica che dovrebbe condurre ad una soluzione condivisa e indolore degli squilibri istituzionali del Paese, il capo dello Stato ascolta le note di brani di salsa. Il messaggio ai venezuelani sembrerebbe ovvio: “state tranquilli come lo sono io”.

Archiviato ormai il Referendum ora resta solo da attendere che Governo e Opposizione trovino un accordo accettabile che permetta di ristabilire la governabilità e, al paese, di uscire dalla crisi. Sul governo si addensa una nuvola nera che promette tempesta. Infatti, è poco probabile che riesca ad ottenere all’estero le risorse, via indebitamento, per onorare gli impegni presi e rispettare la programmazione stabilita nella “finanziaria”.

I nuovi aumenti degli stipendi, decretati nei giorni scorsi, pesano come un macigno sull’economia dell’imprenditorialità privata che ancora non ha gettato la spugna. Ma anche sulle spese dello Stato che, aumentando la burocrazia, si è sostituito ai datori di lavoro tradizionali.

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Il petrolio, fino a ieri, era stato il motore del Paese e la burocrazia e le “Misiones” – leggasi, ammortizzatori sociali – la cinghia di trasmissione per la redistribuzione delle ricchezze. La caduta dei prezzi del barile di greggio, che non pare possa incontrare soluzione nella prossima assemblea dell’Opec, hanno privato il “motore” del Paese della forza necessaria per muovere il carrozzone della burocrazia. E la capacità d’indebitamento esterno sembra essersi ormai esaurita.

Pdvsa, la Holding petrolifera nazionale, è in crisi. Standard &Poor’s ha declassato il merito del suo credito a “Sd”. E’ questa la sigla dell’acronimo di “selective default”. Il suo rating, fino a qualche settimana fa, era Cc; aveva, cioè, raggiunto l’ultimo gradino dopo il quale c’è solo la bancarotta imminente.

L’agenzia di rating nordamericana sarebbe giunta a tale decisione dopo l’operazione di conversione di obbligazioni della holding venezuelana per 7,1 miliardi di dollari. Questa, nell’opinione degli analisti di S&P, non sarebbe altro che uno scambio “distressed”.

“La tempistica dei pagamenti – scrive S&P nel suo rapporto – sarà ritardata con l’estensione delle scadenze dei due bond coinvolti. Non si tratta di un’operazione opportunistica, date le condizioni operative difficili e le significative scadenze del debito che Pdvsa deve fronteggiare e che, molto probabilmente, porterebbero a un default convenzionale al momento del rimborso”.

“Petróleos de Venezuela”, circa un mese fa o poco più, ha lanciato una proposta di scambio per due categorie di obbligazionisti. Il livello di adesione è stato reso noto da poco. In stretta sintesi, saranno convertiti in un nuovo titolo senior, con tasso all’8,5% e scadenza al 2020, il 31,4% delle note non garantite da 3 miliardi al tasso di 5,25%, a scadenza nell’aprile 2017; e il 45,3% dei 4,1 miliardi di note senior anch’esse non garantite a scadenza 2017.

Di fronte alla reticenza degli investitori, sempre più inclini a non scommettere sul paese e sul suo colosso petrolifero, Pdvsa non ha trovato nulla di meglio che garantire l’emissione in partenza con il 50,1% delle azioni di Citgo Holding, una delle sue controllate. Evidentemente S&P non ha gradito la strategia di Pdvsa, considerandola un modo per guadagnare tempo – una mossa tipica dei creditori in difficoltà – e ha declassato le obbligazioni Pdvsa.

La decisione di S&P avrà probabilmente riflessi negativi sul colosso energetico italiano Eni le cui attività, nel Paese, sono concentrate al largo del golfo del Venezuela, del golfo di Paria e nel bacino dell’Orinoco per una superficie di 2.804 chilometri quadrati.

Il default di Pdvsa, quindi, sembra imminente. Se ciò, come evidentemente teme S&P, dovesse accadere, sarebbe l’intero Paese ad entrare in default. La sopravvivenza del governo Maduro diventerebbe ancora più difficile. Questa realtà peserà nelle prossime decisioni che dovranno prendere eventualmente governo e Opposizione nel corso del dialogo.

E chissà che non obblighi alla formazione di un governo di transizione incaricato di traghettare il Paese verso nuove elezioni generali, con buona pace dei venezuelani ma, soprattutto, dell’intero continente sudamericano.

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