Il Governo venezuelano tra l’incudine e il martello

MADURO

Dall’ambito economico a quello diplomatico. Il governo del presidente Maduro sembra deciso a cavalcare l’onda della polemica; quella esplosa con la Guyana e portata avanti a suon di accuse e senza esclusione di colpi. E, in questo modo, allontanare il dibattito nazionale da altri più pressanti problemi: il fallimento evidente delle politiche economiche; fallimento, questo, che si è tradotto in un eccessivo costo della vita, assorbito dal Governo attraverso il razionamento dei prodotti di prima necessità, di dubbiosa provenienza, ma sussidiati e quindi venduti a un “prezzo politico”; la mancanza cronica di valuta, per il momento tamponata da importanti prelievi dallo scrigno del Fondo Monetario Internazionale; la drastica riduzione nell’assegnazione di moneta pregiata agli importatori e la vendita di alcuni prodotti e servizi in dollari – leggasi, automobili e biglietti aerei per qualunque destinazione -; e la caduta del Prodotto Interno Lordo, fenomeno attribuito dal governo a una presunta e poco credibile “guerra economica” orientata a creare confusione tra la popolazione e a screditare l’attuale governo.

La presenza della multinazionale petrolifera nordamericana ExxonMobil nell’Esequibo, un fazzoletto di terra di appena 150 chilometri quadrati su cui il Venezuela reclama la propria sovranità, è stata la scintilla che ha infiammato il discorso del capo dello Stato. Fino ad oggi, il presidente Maduro, non si sa bene se volutamente o no, ha ignorato nei suoi discorsi la holding “National Offshore Company”, azienda cinese socia della ExxonMobil nel progetto di esplorazione nell’Esequibo.

La polemica è andata “in crescendo”. E alle provocazioni di Caracas il governo di Guyana ha risposto alzando i toni, forte della solidarietà scontata del Caricom e consapevole della debolezza del presidente Maduro, la cui popolarità stando ai sondaggi è ai suoi minimi storici. Il richiamo al nazionalismo, nella difesa di quello che il Paese ha sempre reclamato come un suo territorio, non ha ottenuto la risposta che il capo dello Stato sperava.

I venezuelani, presi dai problemi della quotidianità, non hanno reagito come fecero quando il presidente nordamericano, Barack Obama, annunciò le sanzioni contro alcuni funzionari del governo, resisi colpevoli di presunte violazioni dei Diritti Umani. Allora era la lotta di David contro Golia, del Venezuela contro il colosso imperialista. Insomma, una realtà ben diversa da quella odierna. A prescindere dalla legittimità della protesta, il ruolo di David, oggi, spetta alla Guyana e quello di Golia purtroppo al Venezuela. L’effetto psicologico non è di poco conto.

La richiesta di un mediatore dell’Onu, pur rientrando nella strategia del capo dello Stato che punta a mantenere alta l’attenzione sull’Esequibo per distrarla da altri temi, è l’ammissione tacita dell’inefficacia della propria politica a livello internazionale e dell’incapacità di tracciare una strategia diplomatica pungente.

Intanto l’Opposizione non riesce ancora a concordare un discorso comune per affrontare le prossime elezioni parlamentari. Si prolunga oltre il dovuto il dibattito sul “simbolo unico”, a detrimento dell’immagine che si vuole trasmette all’elettorato. Emergono invidie, timori, risentimenti, acredini. La dialettica interna, che aiuta generalmente a crescere; il dibattito aperto e democratico, indispensabile in qualsiasi organizzazione politica, se prolungati oltre il dovuto possono trasformarsi in un pericoloso “boomerang”. Ed ottenere l’effetto contrario. Ad esempio, creare un clima di sconforto e demoralizzazione tra i simpatizzanti.

Mentre la diplomazia e la politica dominano la scena, l’economia continua ad ansimare. Il settore privato della produzione, come ha illustrato recentemente Conindustria, lotta per sopravvivere. Meno della metà delle infrastrutture delle aziende, oggi, è attiva. Responsabile la mancanza delle materie prime, l’impossibilità di acquistare all’estero il necessario per produrre e l’importazione indiscriminata del governo che vende i prodotti a prezzi sussidiati. Una concorrenza sleale che ha messo in ginocchio l’industria nazionale. E così, si moltiplicano le file di fronte ai supermarket. Il razionamento imposto dal governo non riesce a mitigare la carestia. Ancor meno a cancellare la sensazione di vivere in un paese sul punto del collasso.

Intanto il dollaro distrugge il bolìvar, i prezzi del petrolio non accennano a migliorare e gli analisti internazionali si dividono tra chi pronostica il default e chi, invece, scommette sulla ripresa.

Il Venezuela, stando alle informazioni pubblicate dalle riviste specializzate, produce oggigiorno non più di 1,6 milioni di barili di greggio il giorno. Si ritiene che questa sia la sua capacità odierna, quasi la metà dei tre milioni che produceva all’inizio del 1998. Dal canto suo, la canasta del greggio venezuelano oscilla tra i 50 e i 55 dollari il barile. Ciò equivale a circa 90 milioni di dollari il giorno; un totale di 14, forse 15 miliardi di dollari alla fine dell’anno. Le prossime scadenze alle quali dovrà far fronte il paese si stimano attorno ai 6 miliardi 500 milioni di dollari.

Tra l’incudine e il martello. Stando così le cose, il governo dovrà prendere prossimamente una difficile decisione: rimborsare le obbligazioni in euro e in dollari, e così allontanare per il momento l’incubo del default, ma ridurre le importazioni di alimenti e di medicine o, al contrario, privilegiare il consumo interno ma venir meno ai propri impegni nei confronti del debito estero. Sempre che la Cina una volta ancora giunga in suo soccorso. Qualunque decisione prenda il governo avrà profondi effetti elettorali.

(Mauro Bafile/Voce)

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