Valisena e Caira, conoscere da dentro gli emiliano romagnoli all’estero

 


Emigrazione, mobilità e migrazione “circolare”. I due ricercatori dell’Università di Modena studiano la realtà degli emiliano-romagnoli a Madrid, Londra e Berlino


MADRID – Sono impegnati nello studio dei flussi migratori più recenti ai quali preferiscono riferirsi con il termine di “mobilità” e che, nell’ambito europeo alcuni hanno già battezzato con il nome di “migrazione circolare” strettamente legata, come sempre lo sono state le migrazioni, alla “circolazione del lavoro”, alla “circolazione dei talenti” e alla “circolazione della conoscenza”.

– Preferiamo non parlare di emigrazione e immigrazione perché è una prospettiva dello Stato: sei immigrante per il Paese nel quale ti rechi e sei emigrante per il Paes che lasci. Preferiamo parlare di “mobilità”. Ci si sposta da una città all’altra per ragioni di studio, di lavoro, per fare un’esperienza, per amore. Queste emigrazioni, questi fenomeni di “mobilità” possono essere su piccola scala ma anche a scala europea. Il cambio di paradigma è avvenuto nel 1991con lo “spazio Schengen” – Daniele Valisena è storico dell’emigrazione. Con Andrea Caira, anch’egli storico, collabora con il laboratorio di Storia dell’Emigrazione dell’Università di Modena. Insieme svolgono una ricerca sui nuovi flussi emiliano-romagnoli a Madrid, Berlino e Londra. Parliamo con loro in occasione di un incontro con i corregionali residenti in Spagna,  a Madrid per essere più precisi, organizzato dall’Associazione Emiliano Romagnoli in Spagna

– Come è nata l’idea di questa ricerca sull’emigrazione emiliano-romagnola?

 – Collaboriamo, da qualche tempo, con il Laboratorio di Storia dell’Emigrazione dell’Università di Modena – spiega Valisena -. Ci siamo occupati dei flussi migratori dopo la Prima Guerra Mondiale e di quelli dopo la Seconda Guerra Mondiale. Abbiamo pensato che le migrazioni, in realtà, sono ancora un fenomeno attuale. La nostra Regione, credo di non sbagliare, è oggi la seconda per numero di emigrati. Perché studiare questo fenomeno? C’è chi lascia l’Italia, vive all’estero per un periodo  e poi  torna, e c’è chi no… chi resta nel paese di accoglienza. La nostra ricerca vuole capire come e dove si muovono queste persone.

Daniele Valisena

– Le vostre ricerche precedenti, erano limitate all’ambito europeo o andavano più in la?… America Latina… America del Nord… Per esempio, nella seconda metà dell’800 ci fu un importante flusso migratorio verso Argentina, Uruguay… e nell’immediato dopoguerra anche verso il Venezuela.

– Come laboratorio, quindi come ricercatore – ci dice -, ho lavorato con Antonio Canovi sui flussi migratori verso l’Argentina. Andrea, ora, sta lavorando su un progetto che riguarda il Cile…

Chiamato in causa, Andrea Caira prende la parola per precisare:

– In realtà, il mio lavoro si centra sui “flussi in entrata” in Emilia. In particolare, sull’immigrazione cilena provocata dal colpo di Stato di Pinochet. Il modello emiliano di accoglienza e di integrazione all’interno del tessuto sociale ha avuto una specificità tutta sua.

Commenta che il lavoro si sviluppa “sempre attraverso fonti orali”. Alla base, quindi ci sono le interviste, i colloqui con i protagonisti.  Sono conversazioni che permettono di ricostruire una realtà, attraverso “la memoria di chi ancora oggi abita in Emilia”

– Dell’esodo cileno in Emilia-Romagna – prosegue – è rimasta una memoria collettiva importante. Come laboratorio, non soltanto noi ma anche altri ricercatori, lavoriamo su flussi sia in entrata sia in uscita. Oltre al passato ci interessano anche le nuove generazioni.

Lo Spazio Schengen

Valisena si riallaccia ai fenomeni attuali che chiama di “mobilità”. Sostiene che dal 1991, con lo “spazio Schengen” si è verificato “un cambio di paradigma”. All’origine, “la possibilità per i cittadini europei di muoversi a tempo indeterminato per lavorare e risiedere negli altri paesi dell’Unione”. Prosegue:

– La nostra tesi è che i fenomeni di mobilità avvengano non tanto con riferimento al paese di destinazione ma in rapporto con le grandi città europee. Possono essere Madrid, Berlino, Londra. Quest’ultima credo sia la quarta città con più italiani al mondo.

Il progetto al quale lavorano Valisena e Caira fotografa le comunità emiliano-romagnole residenti a Londra, Berlino, Madrid e anche Barcellona.

– Perché queste città sono diventate polo di attrazione per i giovani emiliano romagnoli? Possiamo capire Madrid, per l’affinità linguistica… ma Berlino, con una lingua così ostica…

– Innanzi tutto – commenta Caisa -, i nuovi flussi migratori si muovono in ogni paese europeo grazie alla possibilità che hanno di farlo liberamente. Poi, in alcuni casi si sceglie per questioni puntuali, magari per affinità culturali. Qualcuno andava a Berlino negli anni ‘90 perché era interessato alle correnti “Punk” o perché faceva parte di movimenti politici che occupavano case… C’era la possibilità di avere esperienze con persone provenienti da tutta l’Europa e da altri continenti. Col tempo c’è stata un’evoluzione. Queste grandi città hanno cominciato ad essere un richiamo per i professionisti. Insomma, giovani con un livello di formazione più alto o che desideravano, non solo fare un’esperienza, ma avere anche e soprattutto la possibilità di crescere professionalmente. Questo è quanto sta emergendo dalle nostre interviste.

Andrea Caira

Afferma che “in Italia pare che non ci sia possibilità di crescere ed affermarsi a livello professionale”. Detto in altre parole, l’ascensore sociale e professionale pare essersi bloccato.

– Tutto è più facile all’estero, in queste grandi città. Non è indispensabile la conoscenza della lingua locale. L’inglese funziona come lingua franca. E così ci si può arrangiare sia a Berlino che a Londra, ma anche a Parigi, a Bruxelles ad Amsterdam o a Zurigo.

– Si dice che l’Unione Europea sia stata costruita dall’Erasmus, che ha dato agli studenti la possibilità di formarsi all’estero, e dai voli low-cost, che hanno reso più economico e rapido muoversi all’interno dello “spazio Schengen”…

– È vero –  coincide -.  I voli “low-cost”, oltre naturalmente allo “spazio Schengen”, hanno permesso di viaggiare. Puoi recarti da Roma o Bologna a Berlino in due ore. Una volta, lasciare il proprio Paese rappresentava un distacco più significativo. Tornarvi costava tanto… come partire per recarsi all’estero. Bisognava programmare. Anche andare in treno era costoso e richiedeva ore e ore di viaggio. Questo nuova “emigrazione” ha un altro nome, “mobilità”, perché il paradigma è diverso. L’Erasmus ha costruito l’humus culturale di questi fenomeni. Le persone che si sentivano italiane, spagnole o tedesche cominciano veramente a sentirsi europee.

Dal canto suo, Caira aggiunge:

C’è una costellazione di città globali alle  quali i giovani si recano perché, in qualche modo, cambia il mercato del lavoro. Non è più quello degli anni ‘90. Abbiamo a che fare con categorie nuove. Per esempio, c’è chi si occupa della grafica, anche ad alti livelli, con progettazioni molto specifiche. Penso alla programmazione, quindi sviluppatori, ingegneri. Come diceva Daniele, si ha la percezione che andando fuori si abbia una prospettiva di crescita maggiore, più facile rispetto a un’Italia che resta impantanata in determinati schemi.

 All’estero senza esperienze di lavoro

Caira ritiene molto interessante che, in alcuni casi, ci si rechi all’estero “senza aver avuto esperienze effettive di lavoro in Italia”. Commenta che si ha la convinzione che, in ogni caso, “è meglio così, perché comunque fuori ci sono maggiori opportunità”.

– Intervistando molti under 35 abbiamo avuto conferma di questa tendenza. C’è l’idea che vivere soprattutto in città caotiche, come possono esserlo Londra o Berlino, offra maggiori prospettive di crescita. Risulta interessante che spesso ci sia comunque l’idea di tornare a casa in un futuro. Quindi l’idea del ritorno esiste. così come anche il desiderio di provare tutte le opportunità che queste grandi città possono offrire. Si passa facilmente da Berlino a Barcellona, da Londra a Parigi. Dipende dalle esigenze del mercato e da quelle personali.

 “Fuga di cervelli”

In passato, si emigrava in cerca di una qualità di vita migliore. La stragrande maggioranza di chi si recava all’estero non aveva una professione. Erano soprattutto manovali, operai, contadini, alcuni artigiani… C’è chi è riuscito a creare un’azienda, chi ha avuto successo… specialmente nelle Americhe. Qual è la differenza tra l’emigrazione storica e la nuova emigrazione. Ad esempio, si è creato il mito della “fuga di cervelli”… Lo chiediamo ai due ricercatori.

Caira cede la parola a Valisena che d’entrata confessa di non essere “un grande fans della definizione ‘fuga di cervelli’” . Non lo è, sostiene, perché “le persone emigrano con tutto il corpo non solo con il cervello”.

– E poi – aggiunge -, nella definizione di “fuga di cervelli” viene a mancare l’idea   della possibilità di crescita. Non tutte le persone che si recano all’estero hanno una laurea ed una specializzazione universitaria. In realtà ancora adesso, i dati ce lo dicono, la maggior parte di chi emigra non ha una laurea o, comunque, non ha accesso a quel tipo di professionalità che si considerano per persone “skill”, come si direbbe in inglese. È la differenza tra chi fa il cameriere a Barcellona o lo fa a Carpi. A Carpi è molto difficile cambiare lavoro. A Barcellona si può cominciare così e dopo sei mesi accedere ad un posto di lavoro migliore. Non è che un lavoro definisca così strettamente le possibilità di vita… C’è anche la mobilità sociale.

 – Parliamo della Spagna. È un paese che, a livello di posti di lavoro, non è nel top in Europa. Non è la Germania o la Svezia. Pare, comunque, che sia la meta preferita di tanti giovani emiliano romagnoli… Eppure, l’Emilia-Romagna è una delle regioni “virtuose” nell’ambito economico.

– In effetti, in Emilia-Romagna la disoccupazione è bassissima – ammette Velisena -. Siamo a livelli della Scandinavia. Le persone che preferiscono andare in un altro paese vogliono mettersi in gioco. Sentono di avere più possibilità. Non è un campanello d’allarme. Ma, in Italia, come paese, e anche nelle regioni del nord Italia che, come l’Emilia-Romagna, pensano di essere meglio attrezzate c’è qualcosa che non sta funzionando.

L’ipotesi di lavoro

Quando si inizia una ricerca sulla nuova emigrazione, tra le prime cose a cui si pensa è l’ipotesi di lavoro. Perché porre l’accento su un aspetto invece che su altri? Cosa si vuole sapere? È per questo che chiediamo a Valisena e a Caira qual è la loro ipotesi di partenza…

Questa volta tocca a Caira rispondere. Prende tempo. Forse per riorganizzare le idee, poi, senza fretta, ci dice che, “alla base di ogni ricerca c‘è la voglia di conoscere”.

 

– Nel vostro caso, di conoscere cosa?

– Di conoscere come si muovono i nuovi migranti emiliano-romagnoli all’interno di questo spazio europeo. Quindi ci siamo concentrati sullo studio di quattro città. In realtà, le stesse narrazioni sono valide per altri luoghi. C’è una mappatura, una geografia dell’erranza che lascia molto spazio anche ad altre realtà. L’ipotesi di base è un pochino cercare di capire quali sono i nuovi strumenti delle migrazioni. Cosa fa un giovane migrante che arriva in uno Stato nuovo? Quali sono gli schemi? Emerge in generale un utilizzo dei “social” totalmente nuovo; come strumento atto a facilitare i flussi, la ricerca della casa, la ricerca del lavoro… Ha una dimensione che permette di iniziare il viaggio già da casa, attraverso il collegamento con determinate piattaforme. In alcuni casi, abbiamo intervistato persone che avevano già un lavoro che le attendeva nell’altro Stato; lavori, in alcuni casi, altamente qualificati. L’ipotesi è, appunto, che si va al all’estero anche per un’esigenza materica dell’essere umano.

Spiega che, “in molte interviste, le persone hanno utilizzato proprio il verbo ‘dovere’, il ‘io devo partire’…”

– C’è un’esigenza quasi viscerale che porta il giovane a dire “devo provare qualcosa”, “devo vedere il mondo al di là del mio Comune” – prosegue -. Ecco, l’ipotesi è che non abbiamo un’unica causa. C’è la voglia di avere l’opportunità di partecipare a un’attività sociale, di star meglio, di uscire anche forse da una retorica, quella italiana, che fa comunque della disoccupazione uno dei problemi principali, come d’altronde lo è. Nella nostra ricerca esiste, ripeto, anche il desiderio di scoprire quali sono gli strumenti impiegati preferibilmente dai nuovi migranti emiliani. Quali sono le prospettive, qual è il futuro, quali sono le esigenze future, partendo da una regione, Emilia-Romagna, che nell’economia italiana è un esempio virtuoso. Come diceva Daniele, con basso tasso di disoccupazione.

– Cosa vi attendete dagli incontri che sosterrete con gli emiliano-romagnoli?

– L’idea – risponde Valisena – è vedere queste città come dei porti. Una volta si studiava il percorso migratorio da casa fino al porto d’arrivo… Ora il porto non è più sul mare. Il porto è dato anche dal cielo, dagli aerei. Si arriva in queste città che sono porte sul mondo. Quindi, cerchiamo di capire in che modo questa geografia del quotidiano sia cambiata. Quali sono i collegamenti ancora con casa, con il senso di essere emiliani. Si vuole fare un lavoro di mappatura del quotidiano della nuova “mobilità” degli emiliano romagnoli.

M.B./Redazione Madrid

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