Quell’oscuro oggetto del desiderio


A volte c’era, a volte non c’era. 

È stato uno shock, lo ammetto. Una delusione, lo ammetto.

In breve tempo, tra viaggi e spostamenti vari, ho dovuto imparare a non dare per scontato ciò che pensavo lo fosse, benché vivessi in Spagna e non in Francia. E ancora più in breve tempo, senza che me ne rendessi conto, ciò che non potevo più dare per scontato si era trasformato nel mio oscuro oggetto del desiderio.

Era la prima cosa che controllavo ogni volta che entravamo in un albergo, pensione, casa che fosse. La sua presenza mi rendeva ebbra, mi brillavano gli occhi dalla felicità. E lo osservavo adorante seduta sulla tazza del cesso.

Possibile che un’educazione igienica di un certo tipo lasciasse tracce così profonde nell’equilibrio sentimentale di una persona? Questo mi chiedevo. E sembrava essere proprio così, perché la mia bambina, educata allo stesso modo della madre, sembrava avere la stessa reazione passionale.

Solo lo storico consorte ci diceva di non fare le solite italiane fanatiche e viziate.

Cercando di non fare le solite fanatiche italiane e viziate ma le spagnole austere, abbiamo cambiato per ben cinque volte casa, passando da un estremo a un altro. Nella prima lo cercavo disperata, come se potesse sorgere improvvisamente in corridoio. Nella seconda, in un impeto di lungimiranza del proprietario, era stato installato nel water un marchingegno che voleva essere una raffinatezza giapponese e che schizzava acqua verso l’alto. Tutto era, fuorché raffinatezza, e il pavimento si trasformava presto in acquitrino. Nella terza, (progettata forse da un’italiana viziata?) sono stata felice: era a mia completa disposizione. Nella quarta e nella quinta casa, invece, ho invidiato tutti gli amici che lo possedevano. Solo ora scopriranno che ogni volta che andavo a trovarli lo utilizzavo di nascosto per pura nostalgia.

Anche andare da mia suocera era uno spasso, perché il suo bagno era enorme, con un bidet di ceramica bianca sbrilluccicante. Io strizzavo l’occhio a mia figlia e ci chiudevamo dentro con la scusa che dovevo pettinarla. Stavamo invece ore a fare il bagno alle bambole dentro quella meraviglia. E la antropomorfizzavamo: i rubinetti erano gli occhietti, il tubo un gran nasone e lo scolo una  bocca spalancata stupita di tanto amore.

 

 

Sempre per non comportarmi da fanatica viziata facevo finta di niente con lo storico consorte ma, in segreto, chiedevo informazioni sulla storia del bidet in Spagna a mia cognata, la quale mi raccontava che da piccole molte delle sue compagne non sapevano a cosa servisse. Pensavano fosse qualcosa per metterci i piedi, che in parte era giusto. Ma io, addottrinata nell’uso di quel feticcio, ne ero scandalizzata e le compativo.

Qualche anno fa, è arrivato il momento di comprare casa e già sapevo che sarebbe stata “lotta dura, senza paura” con gli agenti immobiliari e con gli architetti. La pensavano allo stesso modo:

“Perché avere un bidet che occupa spazio quando si può avere un meraviglioso piatto doccia?”

“Perché quello che si guadagna in spazio lo si perde in tempo – ribattevo piccata -. Ti devi rispogliare completamente ogni volta e consumare ancora più acqua!”

“E nooo, mujer – mi dicevano con saggezza scatologica – il segreto è andare in bagno al mattino e poi farsi la doccia!” 

Possibile che l’intero mondo spagnolo fosse così regolare dal punto di vista intestinale? La Dolce Euchessina gli avrebbe fatto un baffo, pensavo mentre le viscere mi si attorcigliavano di rabbia.

Dopo una lotta estenuante siamo arrivati a un compromesso: una pompetta collegata allo sciacquone. Relativamente comoda ma senza il potere di soddisfare completamente il desiderio. 

Quindi, dopo tanti anni, io continuo a guardare tutti i bidet con concupiscenza, lo ammetto. E quando li vedo abbandonati per strada, così simili così diversi, senza arte né parte, il mio cuore soffre terribilmente di un amore ormai lontano.

Elisabetta Spanu

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