“I giorni di Vetro”, Nicoletta Verna ci racconta l’Italia del fascismo

La scrittrice Nicoletta Verna


Invitata dall’associazione culturale “Italia Altrove”, Nicoletta Verna ci parla del suo ultimo romanzo ambientato nel ventennio fascista.  Ricostruisce, attraverso piccoli dettagli, il clima di un’epoca caratterizzata dalla brutalità e dalla prepotenza. Anche dalla ferocia.


MADRID – “Era molto meglio prima, quando io non c’ero e non c’era nessuno dei miei fratelli, né i vivi né i morti. C’era solo mia madre che si rivoltava sul materasso del camerino e urlava: – Ammazzatemi, ostia dla Madonna – e la Fafina rispondeva: – Sta’ zèta, ché chiami il diavolo – e andò avanti così per tre giorni e tre notti, finché mia madre lanciò un grido feroce e venne fuori Goffredo, il primo dei miei fratelli morti. Quando gli diedero lo schiaffo per farlo piangere lui non pianse, allora la Fafina scosse la testa e disse: – È segno che a Dio Cristo lassù gli bisognava  un angiolino”. È l’inizio del romanzo “I Giorni di Vetro” della scrittrice Nicoletta Verna. È una storia ambientata nell’Italia del fascismo che racconta, con un linguaggio asciutto ma non arido, la storia di una giovane donna, Redenta, della sua famiglia e della gente che la circonda. Racconta anche di un’epoca, il ventennio fascista, e la violenza che caratterizzava quella società maschilista. È una storia che ha per sfondo la fiducia nell’essere umano, nonostante tutto.

Conversiamo con Nicoletta Verna poco prima della presentazione del suo libro a Madrid, evento organizzato dall’associazione culturale “Italia Altrove”, mentre, poco a poco, l’accogliente saletta della “Libreria Pasaje” comincia a gremirsi di tanti amanti della letteratura e della lettura. Così, il silenzio iniziale si trasforma in un sommesso brusio.

Dalla lettura del romanzo, fin dalle prime pagine, al lettore, anche quello meno avvezzo, non sfugge che dietro il racconto c’è una profonda ricerca storica che permette di ricostruire, attraverso piccoli dettagli, il clima di un’epoca caratterizzata dalla brutalità e dalla prepotenza. Anche dalla ferocia. Il periodo fascista, la campagna, il nord… Perché ambientare il romanzo in un’epoca lontana, in una società che oggi si conosce attraverso i racconti dei nonni, che ci risulta per molti versi lontana e non dei nostri giorni?

– Ambientare un romanzo durante il fascismo è sempre stato un mio desiderio – spiega Verna alla “Voce” -. L’idea di questo romanzo mi è venuta quando ero giovanissima, quando ancora frequentavo l’università…

Una pausa, per lasciare tempo ai ricordi di scorrere liberi. Poi, riprende con un sorriso:

– Risale a più di vent’anni fa ma ho continuato a pensarci. Poi, quando dalla Romagna mi sono trasferita a Firenze, ho sentito, ancora di più quell’urgenza; la necessità di ambientare un romanzo in Romagna. Due i motivi. Il primo, perché è la mia terra. Castrocaro, dove è ambientata la storia principale, è il paese di mio padre. Ci sono cresciuta. Quindi ho nella memoria l’eco di quelle storie, di quelle persone.

Assicura che “tutto quello che è scritto nel libro è frutto di fantasia, ma è anche fortemente ancorato in quei luoghi, in quelle storie” che le sono state raccontate, che le sono familiari.

– La Romagna, altro motivo importantissimo, è la terra di Mussolini – aggiunge -. Mussolini era di Predappio, che è vicinissimo a Castrocaro. Solo pochi minuti, pochi chilometri dividono l’uno dall’altro. La Romagna, durante il fascismo, ha avuto una storia molto particolare, molto avventurosa e molto bella da raccontare… bella… forse non è quello il termine giusto, perché è stata una storia tragica – ammette con un sussurro, quasi parlando a sé stessa -; ma, dal punto di vista narrativo, anche le tragedie… come dire… sono quelle che ci piacciono nella letteratura. Quindi, nella sostanza, il motivo era questo.

– Anche il linguaggio è particolare. È un linguaggio asciutto ma, allo stesso tempo, ricco. Il dialogo a volte è monosillabico… Descrivi una realtà che la nostra generazione e quella dei nostri figli, non ha vissuto. Ci è lontana… ma ce la rendi viva. Ci trasporti  in essa rendendocela reale. Come hai fatto a ricostruire fin nei dettagli la storia, il linguaggio, l’ambiente?

– Ho fatto una grandissima raccolta di racconti orali – confessa -. Testimonianze della mia famiglia, degli amici, delle persone del passato. Ecco, una cosa importante: allora di fascismo e di resistenza, nelle famiglie si parlava tantissimo. Era un tema ricorrente. In ogni famiglia si parlava quasi quotidianamente di fascismo, di guerra, di condizione della donna. Poi c’è stata una ricerca più etnografica svolta sui libri, sulle raccolte di racconti. Quindi, materiale scritto. Il racconto è frutto delle due cose messe insieme.

– E la costruzione del personaggio, mi riferisco alla sua costruzione psicologica. Questa bambina che non parla fin dalla nascita, che non respira quasi, ma che osserva tutto. Una protagonista silenziosa e sempre presente…

– L’ispirazione è Elsa Morante. Quindi, un tipo di donna, anche di uomo ma soprattutto di donna, che è vittima della storia. Sono donne umili, donne che non hanno mai avuto voce in capitolo nella grande storia. Sono donne che con i loro gesti, gesti di resilienza, gesti di coraggio, di quel coraggio che non finirà sui libri, di coraggio non eclatante, ma fatto di piccole cose quotidiane, hanno contribuito a costruire la storia.

– La protagonista è un po’ un’eroina silenziosa…

– Hai detto benissimo, non parla. Da tutti è considerata la scema del villaggio: menomata, ritardata. Eppure lei ha quel tipo di intelligenza, quel tipo di bontà, che è la bontà delle persone umili. È quella bontà che le consentirà di fare un gesto di enorme salvezza. Dal punto di vista simbolico, rappresenta proprio la salvezza dell’intera umanità di fronte all’orrore della guerra, dell’odio, della violenza.

Tanta fantasia, ma anche tanta realtà. “I Giorni di Vetro” non è un romanzo storico, ma la sua lettura rinverdisce i ricordi. È così come tornano alla memoria le storie raccontate dagli anziani, dai nonni; le leggende che si tramandano oralmente nei borghi e nei paesetti che hanno vissuto la prepotenza e l’arroganza del fascismo, del nazismo e del potere che si alimentava di questi.

Un po’ tutti i personaggi – ci dice Verna – sono ispirati alla realtà. Per esempio, Vetro è il comandante del “Battaglione M”. Arriva a Castrocaro nell’estate del ‘44, con lo scopo di sterminare le bande partigiane che, in quegli anni, brulicavano nelle campagne. I fascisti incominciano a temere i partigiani perché si rendono conto che, pur non essendo organizzati e non essendo numerosi, possono dare fastidio. La loro presenza è ingombrante. Il “Battaglione M” sale dalle Marche e arriva a Castrocaro. Questo è un dato storico. Vetro, invece, è inventato. Ma il comandante del “Battaglione M”, che a Castrocaro ha commesso atrocità incredibili, è esistito davvero. Si è macchiato di delitti orribili. Vetro è un personaggio inventato, ma è molto vicina alla realtà. Nel mio romanzo fa altre cose che non ha fatto… ma il significato è molto, molto simile.

– Il padre di Redenta è il genitore di una tipica famiglia dell’epoca, quelle in cui avere una figlia invece di un figlio era vissuto quasi come un disonore. Avere una figlia che considerava menomata, poi… È un personaggio di poche parole, però molto molto presente. È lo specchio  di qualcuno che hai conosciuto? Ecco, dov’è la frontiera fra realtà e fantasia…

– È tutto molto mescolato e fuso. Per esempio, la Fafina, che è la nonna di Redenta, era la mia bisnonna. Lì non c’è nulla di inventato. Lei era l’infermiera di Castrocaro. Quello che ho scritto è quello che mi ha raccontato. Il padre è un fascista molto opportunista; un uomo squallido che aderì al fascismo per pura convenienza ed è l’immagine di tantissimi fascisti di quegli anni. Il fascismo, purtroppo – spiega –, si è potuto radicare così fortemente, non tanto e non solo perché c’erano i gerarchi, quelli convinti, ma perché ci fu una massa di persone che si adattò, in maniera opportunista. Lui non ha un riferimento particolare su cui si basa ma è lo specchio di tante altre persone. Il medico è realmente esistito. Quello che fa nascere Redenta esisteva veramente. A Forlì era famosissimo, perché era considerato lo “stregone” che curava le persone. Tutti i personaggi sono fortemente ispirati alla realtà. Quindi il confine è molto labile. Tutto quanto ho scritto di Castrocaro è vero: la topografia, i luoghi… è tutto vero. Quindi c’è tanta realtà nelle pagine.

– Mio padre mi raccontava il periodo fascista vissuto da antifascista. Io ho ripercorso le strade di cui parlava, avendo vissuto tanti anni a L’Aquila da bambino, prima, e da universitario poi. Così ho rivissuto i suoi racconti, le sue esperienze. Quando ho cominciato a leggere il romanzo, mi è sembrato  di vivere le esperienze dei personaggi di cui lui mi parlava…

– È un complimento, grande. Ho cercato di mettermi negli occhi dei personaggi. Lo scrittore dovrebbe sempre scomparire. Sono i personaggi che devono avere la scena. Mio padre raccontava tantissimi episodi  di allora. Lui era del ’30, quindi ricordava molto bene anche gli anni di guerra. Mia nonna ha visto impiccare Silvio Corbari. Il partigiano che nel romanzo ho chiamato Diaz è ispirato a Corbari, un partigiano romagnolo che fu impiccato proprio a Castrocaro. Mia nonna lo vide perché quel giorno i fascisti bussarono di porta in porta. Dicevano: “Venite a vedere”. Tutti dovevano applaudire, ovviamente. Se non lo facevano, sarebbero stati fucilati. Avevo la mente piena di queste suggestioni, e ho cercato di metterle tutte nel libro.

Parliamo ora di Nicoletta. Non di Nicoletta la scrittrice, ma della donna. Come si è formata? Quali letture hai fatto? Perché si è dedicata a…

– Sono stata una bambina molto precoce – ci dice con un sorriso -. Ho imparato a leggere molto presto. Addirittura, mi fecero saltare la prima elementare perché avevo imparato a leggere da sola. Era una passione enorme. Ho letto di tutto. Leggevo da mia nonna. Trovavo romanzi rosa, quelli da edicola, e li leggevo. Poi andavo in biblioteca e prendevo invece dei libroni, tutta la letteratura… Calvino l’ho letto prestissimo. E poi i classici dell’infanzia dei miei anni. Forse questa infarinatura generale aiuta a formare una prospettiva ampia.

– Qual è stata la miccia, la scintilla che ti ha fatto iniziare a scrivere.

– Ho sempre scritto in maniera compulsiva – confessa -. Scrivevo tanto, ma sempre per me stessa. Lettere, diari… Dopo ho scritto  un romanzo, che poi è diventato  il mio primo romanzo. Non lo facevo vedere a nessuno. Mi vergognavo. Finalmente, ho trovato il coraggio di credere in me stessa. È stata la cosa più difficile… trovare la fiducia in me stessa. Allora, l’ho dato ad una editor professionista. Ricordo che telefonò e mi disse: “è tutto da riscrivere, però devi riscriverlo perché questo romanzo ha dietro una voce fortissima”. È stata  quella la miccia.

– C’è molto femminismo in quello che scrivi, un femminismo senza eccessi, che fa pensare, che convince…  Come tratteresti  il femminismo se dovessi scrivere  un romanzo che ha al centro le lotte delle donne…

– Per me, il femminismo… ora dirò una cosa che può sembrare provocatoria ma che in effetti non lo è:  tutti siamo femministi. Il femminismo è aspirare  alla parità di diritti tra uomini e donne. Penso che oggi chiunque che sia favorevole a questo possa considerarsi femminista. È una questione di giustizia. Tutte le persone, tutti gli uomini e le donne, le etnie hanno  gli stessi diritti. Non definirsi femministi a me sembra strano. Vorrebbe dire essere maschilisti. Nessuno è maschilista. Nessuno di noi, almeno razionalmente, desidera che gli uomini abbiano più diritti. Quindi per me il femminismo è alla base della convivenza. Poi, come tutti i fenomeni, può avere  degli estremi. Penso che a volte questi estremi siano necessari. Devi esagerare per ottenere. Poi, quando tutto sarà arrivato alla normalità, allora secondo me non ci saranno più estremismi. L’estremismo è dovuto al fatto che di strada da fare ce n’è ancora tanta… non solo per i diritti delle donne. Per i diritti delle minoranze, per i diritti LGBTQ, per i diritti dei ragazzi. Mi pare, se posso permettermi, che oggi si stiano facendo anche dei passi indietro. Questo romanzo parla della resistenza, resistenza intesa non di guerra, ma di lotta per l’affermazione dei nostri diritti, della nostra dignità come esseri umani. Questo non va mai perso di vista.

– Sei scrittrice, quindi sicuramente stai pensando alla prossima… non la  chiamerò fatica, ma soddisfazione.

– Scrivere è entrambe le cose. È una soddisfazione, ma a volte è anche tanto faticoso. E qualche volta frustrante. Ci sono giorni in cui trascorri l’intero pomeriggio a scrivere. Poi ti rendi conto che sei riuscita a scrivere  solo una riga che fa  schifo e che cancelli. Ma è più soddisfazione che fatica. Sì, in effetti sto scrivendo un libro per ragazzi, per bambini. Anche questo ambientato durante la resistenza. Mi piace l’idea. È un periodo che i nostri ragazzi conoscono molto poco. I testimoni sono venuti a mancare, a scuola c’è sempre meno tempo per fare tutto. L’idea di poter parlarne anche ai bambini mi piace.

– Con lo stesso linguaggio… o avrà un’evoluzione…  dovrà essere semplice, adeguato  per arrivare ai bambini.

– Ecco, questa è la cosa che mi spaventa. La lezione di Calvino… che per me è nell’olimpo degli scrittori. La sua lezione che dobbiamo tenere sempre presente: la semplicità, la chiarezza e la leggerezza sono virtù del linguaggio. Non significa un linguaggio povero; significa  un linguaggio che tutti possono cogliere. È quindi qualcosa di prezioso. Chiaro, Calvino era Calvino… Comunque, uno ci prova. Ispirarsi è gratis.

– Come vedi il tuo futuro.

– Sogno un mondo un po’ più giusto. Lo so che dico una cosa banale. Ho due bambini piccoli. Vorrei davvero che venissero riconosciuti i loro diritti. Vorrei che la bambina potesse  aspirare a un lavoro, a uno stipendio, agli stessi diritti di suo fratello. Questa è la cosa che poi mi renderebbe  felice.

– Parli del periodo fascista, quindi anche della guerra; di una guerra che la nostra generazione non ha conosciuto se non attraverso i racconti dei genitori e dei nonni. Per settant’anni non abbiamo capito veramente, almeno la nostra generazione, il vero significato della guerra. Certo, guerre ci sono sempre state, ma lontane… in altre continenti. Adesso ne abbiamo una alle porte dell’Europa. Anche il razzismo ci pareva tanto lontano ed ora lo abbiamo in casa… Non abbiamo imparato proprio nulla?

– La stragrande  maggioranza ha imparato, è  pacifista. Vuole il bene del mondo e non torcerebbe  un capello a nessuno. La gran parte degli uomini non è violenta. Però… Il sistema capitalista si basa sul potere. E il potere coercitivo. Questo è il tema del romanzo: la violenza come forma di progresso. La sopraffazione come forma non solo di convivenza, ma anche proprio di progresso. È tremendo. Il razzismo, ad esempio, è molto contraddittorio. Viviamo in una società multiculturale. Puoi dire: io sono razzista. È un problema tuo perché la storia sta andando in un’altra direzione. A scuola, la classe dei miei figli è multietnica. Ai miei tempi era inimmaginabile, non esisteva. I miei figli non potrebbero essere razzisti. Quelli sono  i bambini con cui sono  a scuola, con cui giocano  a calcio, con cui vanno  al cinema, con cui si fidanzano… crescono insieme. Il razzismo è un qualcosa di obsoleto. Eppure  non solo esiste,  ma è oggetto di retorica, di comunicazione e di propaganda. L’immigrazione va regolata, ma non si può usare  questo argomento come tema di politica. È scorretto.

La saletta è ormai gremita di amanti della lettura, tanti con il libro di Nicoletta in mano. Potremmo continuare a conversare ancora per molto ma il tempo a nostra disposizione è esaurito. Il pubblico reclama la presenza dell’autrice di “I giorni di Vetro”.

Mauro Bafile

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