Io, Martino

Immagine di wirestock su Freepik


di Fabian Soberón

Non fu una notte qualunque. La luna dominava il lastricato del municipio. Quella luce era una premonizione di ciò che sarebbe arrivato.

Diciamo subito che non si trattò di una fuga. Né  l’effetto delle preghiere di mia madre né l’evasione per gli abusi e l’incomprensione di mio padre. Nulla di questo.

Da ragazzo ebbi il desiderio di andarmene da casa, da questo mondo. Fu un desiderio che divenne irrefrenabile, senza alcuna ragione.

Chi può sapere in anticipo cosa Dio farà con la sua vita? Nessuno. Nemmeno i santi.

Le versioni che sono circolate nel paese sono bestemmie. Mi hanno trasformato in omosessuale represso, in ladro, in vendicatore. Mi hanno accusato di essere un allievo presuntuoso, un pittore mediocre, un approfittatore del denaro dello Stato. Alcuni arrivarono  a dire che me ne ero andato in Europa e che vivevo  grazie a quello che dipingo nelle strade. Si sbagliano tutti. E si sbagliano perché non hanno fede. La fede è l’unica che non deve mancare.

Le persone che comprendono la verità sono mia madre e Sarita. Da quando me ne andai, diciamo, loro hanno pregato per lunghe notti e sono le uniche che sanno la realtà. Ma non tutta. Solo Dio la sa.

Alcuni conoscono già la mia storia. Iniziai con una madonnina nel cortile di casa mia. Mia madre era entusiasta. Il suo sogno era stato di avere un figlio prete così l’idea di dipingere una madonnina la emozionava e le faceva credere che il suo sogno si potesse avverare.  A mio padre non gliene importò mai nulla. L’unica cosa che fece nella sua vita fu di dedicarsi al vino e agli amici del bar. Ma questa è un’altra storia.

Il precettore del mio corso era amico di mia madre in quel periodo, prima che mio padre diventasse geloso e lo cacciasse. Ma lui, che aveva visto la madonnina di casa mia mi diede l’incarico. Mosso da una forza cieca, dipinsi un Gesù Cristo nel cortile interno, vicino al bagno dei maschi.

Su richiesta della direttrice, ispirata dal Gesù Cristo, copiai un San Sebastiano sofferente. Lei non voleva essere da meno e, sicuramente anche per la sua autorità, mi chiese di realizzare una figura più grande, più sofferente e con più ferite sul corpo. Scelse la parete dell’entrata della scuola. Quello che feci fu rivedere alcune immagini da Wikipedia. Trovai la versione di Leonardo e ne apportai solo alcuni ritocchi. Non voglio che pensiate male: non intendo sostenere che ritoccai il capolavoro di Leonardo ma solo che  cambiai alcuni piccoli dettagli in modo che l’immagine fosse più grande,  da riempire tutta la parete che accoglie gli studenti. Però in fin dei conti si trattava semplicemente di una copia  del dipinto di Leonardo. Chi potrebbe essere come Leonardo, no?. Bene, c’è ancora un’ombra di quello che feci quella volta.

Feci altri lavori in due scuole e il mio nome iniziò a essere riconosciuto dalla gente. Diventai il pittore di immagini sacre.

La gente non ha la fede, non crede. Io lo prendevo come un passatempo. Nessuno si accorgeva che io stavo cambiando, che i dipinti e i lavori con i tappi di plastica erano un avatar, una cosa secondaria, uno strumento per arrivare a quello che sono. La cosa più importante stava accadendo nella mia anima e, attraverso di essa, nel mio corpo.

La risonanza del mio lavoro arrivò al sindaco. Mi assunsero per dipingere un gruppo di angeli su un muro del municipio. Era un lavoro stipendiato. I soldi non mi importavano. Lo feci solo per mia madre e per me, ovviamente. Fin dal primo momento seppi che ero nelle mani del Signore.

La mattina dopo organizzai il lavoro e creai la prima bozza. Tornai a casa, pranzai con mia madre – mio padre non c’era – e quando andai a fare un riposino ebbi la sensazione che sarebbe stato il mio ultimo soggiorno a casa. Prima di partire in direzione del municipio chiamai mia madre. Stava guardando le notizie in TV. L’abbracciai. Lei sorrise e poi pianse. Me ne andai. Lei ebbe  un presentimento.

Arrivai al  municipio alle sette di sera. Sistemai  i pennelli , i  materiali e  salii sulla scala. Dopo un paio d’ore i dipendenti se ne andarono. Il sindaco si avvicinò e osservò la bozza. Lo guardai come se fosse un addio. Non avevo alcun  legame con lui, ma fu lui stesso chi permise di completare il piano divino. Quando mi strinse la mano per andarsene lo ringraziai. Lui mi guardò sorpreso. Sicuramente non capiva  niente.

Non ebbi mai aiutanti quindi rimasi solo.

In piena notte, sentii un osso spingere  dal lato destro della mia schiena. Ero stanco ma non vedevo l’ora di finire. Scesi dalla scala e mi  buttai sulla poltrona che avevano lasciato  accanto a me. Il silenzio regnava come la luna d’argento. Cercando  di appoggiare le mie spalle, sentii un leggero disagio. Era il bordo delle ali. Non riuscii a sdraiarmi.

Mi  affidai a Dio e cominciai a pregare.  Dopotutto, era quello che sempre avevo desiderato. Mi alzai dalla poltrona e proseguii. Il primo angelo era già finito.

Quando iniziai il ritocco del secondo angelo, sentii sollevarmi da terra. Pregai a voce bassa, aumentando man mano il volume. Ero solo e nessun essere umano avrebbe impedito il raggiungimento dell’obiettivo. Solo l’abbaiare di alcuni cani interrompeva il silenzio notturno.

Continuai a salire e osservai le cose umane da un’altra prospettiva. Sentii uno strano sollievo, mai provato. Sospirai in quell’istante, ricordo. E apparvero i volti dei miei amici e di mia madre, che è sempre nei miei pensieri. Le mie gambe tremarono lievemente. Mi aggrappai alla scala e continuai a dipingere.

Un’aria nuova gonfiò i miei polmoni. In quell’istante sentii che dovevo godermi ciò che veniva. Appoggiai le mani sui fianchi  come i manici di una giara e restai a guardare la luce argentea della luna. Le stelle scintillanti   brillavano nel cielo.

Lento, ossessivo, terminai il secondo angelo e successivamente mi dedicai agli altri che mancavano.

Terminata l’opera, cercai di scendere dalla scala, ma una forza me lo impedì.

Non posso affermare in quale istante mi trasformai in ciò che sono. Sospeso nell’ aria  percepii che  quello   era il mio elemento, che era stato lì da sempre e seppi che non sarei ritornato in terra. Una felicità indomita e incontenibile si disegnò sulla mia faccia.  L’unico rammarico fu che non ci fosse nessuno a vedermi, ora che si sarebbero potute cancellare tutte le cose orribili dette sulla mia persona. Naranjo Esquina  è un mare di speculazioni rovinose e volgari.

Le ali mi elevarono fino a un’altezza impensabile. Al lato di alcune nuvole instabili e nere – da un punto misterioso che nessun umano può considerare –  vidi l’opera al completo. E mi rallegrai.

Tornai a pregare. L’unica cosa che feci in quell’ istante fu pregare.

Non sentii il desiderio di tornare a casa. Ero sicuro che mia madre mi avrebbe compreso e perdonato. Fui elevato dallo Spirito Santo. Rendo grazia a Dio e a tutti i santi per la vita che conduco fin da quella prima notte felice.


Cuento traducido por un grupo de alumnas  italianas que aprenden español en Italia, en la asociación “Il Tempo Ritrovato”, coordinadas por la profesora argentina residente en ese país, Ana Lia Zamorano.

 Este equipo de traductoras está integrado por:

Federica Biagini – Brenda Bartolomeo

Katia Erinaldi – Simona Batisti

Federica Arrigoni –  Claudia Bucci

Magdalena Izdebska

Lascia un commento