Anni fa, insieme a Claudio, demmo vita al Manifesto culturale Il Bandolo, ognuno con le proprie competenze e con le differenze che ci contraddistinguono, nell’intento di sollecitare la produzione di testi in grado di interrompere la spirale di banalità e di sciatteria che sommerge l’odierno mercato librario (ovviamente, pur non potendo e non volendo fare di ogni erba un fascio). Nessuna illusione di cambiare il mondo (ci mancherebbe!), ma un piccolissimo scrollone fu dato e moltissimi autori mostrarono interesse per le idee promulgate.
Quella di Claudio è davvero scrittura di alta qualità, estremamente limpida e brillante, raffinata, realizzata come suol dirsi in punta di penna, con agilità ed eleganza condite da sottile e spiritosa ironia. Il tutto sostenuto da contenuti di alto livello, distanti anni luce dal minimalismo culturale di tanta odierna e insulsa letteratura. Fondamentale è l’interrogazione sul mistero, indipendentemente dalle risposte che alla domanda si possono dare. Diceva Heidegger che la domanda metafisica è ineludibile per qualsiasi intellettuale degno di questo nome.
Un serio studio sull’uomo o, come lui diceva, sull’esserci, non può non chiamare in causa l’essere, a prescindere dalle risposte che alla domanda si possono dare. Seppure Fiorentini è e resta fondamentalmente scettico, i temi metafisici in lui ci sono e sono pregnanti. Ma andiamo per gradi. E’ una pulsione corale ad animare la sua poesia. Un ritratto a tutto tondo dell’animo umano – tra il giocoso e il severo, il sognante e il disilluso – dove il nuovo e l’antico si affratellano in una strana congiunzione di atmosfere e stili differenti, addirittura opposti tra di loro.
Si svaria dall’avanguardismo metasimbolista cui in giovane età l’autore ha aderito (si leggano i versi dedicati al maestro Francesco Maria Mecarolo) alla tradizione sonettistica e finanche alla terzina dantesca, perlopiù usata con intenti umoristici. Ed è anche opportuno ricordare la vena dialettale dell’autore (qui assente), con quelle pasquinate che danno conto di una veracità e di un realismo desueti nella cultura di massa attuale, squisitamente soggettivista e disgregante a dispetto dell’omologazione e delle pretese aggregative.
Questo senso corale, di coinvolgimento totale nelle arti e nella vita, affiora tra l’altro nelle innumerevoli iniziative del poeta, impegnato anche come gallerista nella promozione delle arti figurative. Cultore raffinato anche di musica, egli è da sempre affascinato dal tema della sonorità delle arti e dai progetti “intermediali”. Quasi un ritorno in chiave moderna dell’oraziano ut pictura poesis, che tanto successo ha avuto nella riflessione estetica, fino ai tempi attuali.
L’occasione è offerta da questa nuova collana di Progetto Cultura – Via Silla 96 – affidata al pittore Stefano Zampieri con l’intento di evidenziare il rapporto tra figure e parole, tra pittura e poesia. Il connubio tra immagini e scrittura è noto da sempre, se è vero – così accerta Plutarco – che già Simonide di Ceo, nel VI-V secolo, soleva dire: <La pittura è una poesia muta e la poesia una pittura parlante>. E Leonardo da Vinci poteva ripetere: <La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede>.
Queste pagine nascono dunque all’insegna del dialogo tra le due forme espressive, ma in senso più lato da quella necessità di dialogo che la dice lunga sulla visione corale e orizzontale della vita da cui è animato l’autore. Questo nuovo testo poetico s’intitola Scarti non foste e sta a mostrare la vitalità di scritti accantonati, tenuti in sottordine e forse anche dimenticati dall’autore, che, ripescati al momento opportuno, sono in grado di illuminare di luce nuova l’intera sua produzione. Anelli mancanti che testimoniano passaggi importanti della sua maturazione artistica.
Fondamentale, forse qui più che altrove, è l’interrogazione sul mistero. Una visione pertanto orizzontale della vita, ma non per questo mortificata e piatta, destinata anzi com’è ad amplificare il senso del mistero in cui è immersa la realtà della vita. Cos’è dunque il mistero per Fiorentini? Non certo un dogma, una formula inconfutabile, un cieco fideismo assertivo. Piuttosto una verità indefinibile che possiamo certamente dipingere come vogliamo, purché il ritratto non si trasformi in feticcio finendo per imprigionarci, anziché aiutarci a volare.
Il punto è assai delicato, perché, codificando i valori eterni dello spirito, non si fa che astrarli e allontanarli dalla vita, ed è ciò a provocare la reazione dell’autore. C’è un pessimismo di fondo, questo è indubitabile: la vita spesso è menzogna e violenza. Homo homini lupus: <da una parte chi schiaccia, / dall’altra chi è schiacciato>. Una legge durissima, dove i sogni muoiono all’alba, e il poeta con loro: <ciò che ho dentro / cresce di notte / e il sogno si prepara / a morire nel giorno / per tornare al buio>. Resta tuttavia un desiderio di verità inappagato.
Un inutile pretesa, forse, mentre la vita precipita nella finzione e nell’artificio. Una realtà che non piace, contro cui vorremmo e dovremmo lottare. L’ansia metafisica dell’autore pretenderebbe molto di più, ma alla fine, con amarezza, egli è costretto a prendere atto che <anche Dio è marcio>, riferendosi, credo, al dio creato dall’uomo a propria immagine e somiglianza, al dio ridotto a “concetto”, antropomorfico, e non direi all’Artefice del Tutto di cui nulla sappiamo e che siamo giustamente invitati a non nominare invano. Il “concetto” è ciò che <ci divide dalla verità>. Usciamo dalla verità quando tentiamo di definirla concettualmente.
Il problema dell’autenticità è assai vivo in Fiorentini. Ed è proprio quando lui confessa di non riuscire ad essere sincero (<mi perdo in vaniloqui / confondo e mi confondo / tralasciando essenza e verità per ambizioni insoddisfatte>), che manifesta paradossalmente la sua autenticità, in questa sua sincerissima ammissione. Chiaro e luminoso il sogno metafisico: fratellanza, viva attesa e speranza che finalmente <la marmaglia umana diventi unione di idee / e niente, assolutamente niente covi il maligno>. Certo, sa bene, il poeta, che <di speranze è piena la noia>, ma conclude: <finché vi sarà anche un solo uomo / che crederà nella giustizia / non sarà inutile sperare / in un sorriso>.
Franco Campegiani