La realtà, al dunque, è risultata molto meno sorprendente di quanto l’avevano dipinta sondaggi e timori del peggio, l’analisi sociopolitica più realistica dell’enfasi elettorale che alla vigilia attribuiva all’estrema destra la possibilità del trionfo. E’ quanto mostrano le urne alla verifica del primo confronto per la presidenza della Repubblica, parte del Congresso e importanti governi regionali, svoltasi ieri ordinatamente in Argentina con una partecipazione superiore al passato, sfiorando il 78% dei 35 milioni di elettori. Il fenomeno del dirompente anarco-liberismo di Javier Milei, inatteso vincitore nelle primarie del 14 agosto scorso e da quel momento protagonista dell’intera campagna elettorale, si è arrestato sul 30 per cento.
Restando non solo ben lontano dalla maggioranza assoluta necessaria per vincere; ma contro le previsioni sorpassato e lasciato indietro dal candidato peronista Sergio Massa, ieri il più votato con il 36,7%. Terza l’esponente della destra tradizionale, Patricia Bullrich , 23,8 %, giunta seconda alle primarie.
Il recupero del ministro dell’economia premia la tenacia del suo impegno personale. A renderlo possibile -essenzialmente-, è stata nondimeno la fortissima e tutt’altro che scontata riaffermazione del governatore uscente della sinistra peronista, Axel Kicillov, nella provincia-chiave di Buenos Aires, con il 44,9%. E’ stato un nuovo ottobre dei descamisados, dicono adesso i sostenitori della controversa Cristina Kirchner che ne è la leader.
A decidere sarà comunque il secondo turno il prossimo 19 novembre, in cui il ballottaggio tra Massa e Milei si presenta accanito, all’ultima scheda. Poiché la semplice somma dei voti della candidata conservatrice Bullrich con quelli di Milei porterebbero quest’ultimo alla Casa Rosada. Ma la politica non coincide con l’aritmetica, segue invece logiche distinte che in questo caso potrebbero condurla al risultato opposto.
La battaglia condotta fino a ieri a colpi d’ascia diventa da oggi un duello al fioretto. Per entrambi gli sfidanti si tratta di conquistare un elettorato eterogeneo come quello che ha votato Bullrich, composto da seguaci della vecchia Unione Civica Radicale, a loro volta divisi tra socialdemocratici e conservatori moderati, oltre che dalla destra tradizionale.
Ci sono poi gli oltre 3 milioni circa di votanti della sinistra non peronista e del peronismo di destra, non facili da identificare nei loro umori circostanziali e meno ancora da mettere insieme. Il fondo del loro animo cosi come di quello d’una parte del conservatorismo tradizionale argentino non è tuttavia estraneo ai valori del sistema democratico. E sebbene diffidino profondamente del populismo peronista, lo scatenato estremismo culturale oltre che politico di Milei certamente li rende inquieti. Ben più dello statalismo di Sergio Massa, aperto a privatizzazioni mirate e comunque e da sempre alla trattativa. Tanto che la sua campagna elettorale è stata caratterizzata dalla denuncia dell’estrema vulnerabilità del modello economico.
La sua drammatica crisi viene ormai puntualmente riassunta in due spaventose immagini istantanee: 138 per cento d’inflazione, 40 per cento dei 46 milioni di abitanti in condizioni di povertà. Ma dietro questi dati congiunturali ancor che d’effetto prolungato, c’è una ben più allarmante indicazione strutturale: la de-industrializzazione dell’obsoleto sistema produttivo e la caduta del suo valore aggiunto (un fenomeno questo di dimensione sub-continentale, che riduce il peso dell’intera America Latina rispetto all’economia mondiale), e a cui nel 2023 si sono aggiunti i danni della siccità che hanno colpito l’export agricolo e la raccolta di valuta forte. Tanto da far temere un default del debito estero moltiplicato 4 anni fa dal governo dell’ex presidente Mauricio Macri.
Gli economisti della CEPAL e in parte perfino quelli del Fondo Monetario vedono con estrema preoccupazione la dollarizzazione dell’economia argentina sbandierata da Milei. Sollecitano invece il rinnovamento dell’industria per sostenere PIL e occupazione, quindi gli indispensabili, grandi investimenti che nel paese e nel subcontinente sono invece da tempo in diminuzione.
Sarà questo il terreno sul quale verrà deciso il prossimo futuro del grande paese sudamericano (e degli altri della regione, ciascuno con i suoi tempi politico-istituzionali). La qualità del dibattito elettorale nelle prossime settimane e già da domani sarà quindi decisiva. Se la sua inevitabile quota di demagogia verrà contenuta, gli elettori potranno votare con un maggior grado di consapevolezza. L’ Argentina si gioca un bel pezzo di futuro.
Livio Zanotti