Crisi politica e realismo magico in Perù

Perù: il candidato presidenziale Pedro Castillo portato sulle spalle dai supoi seguitori. in un immagine d' archivio.
Il deposto presidente del Perú Pedro Castillo portato sulle spalle dai suoi seguitori. in un immagine d' archivio. EPA/FRANCISCO VIGO

Con il centro urbano più antico del Sudamerica intasato da 10 milioni di abitanti impoveriti, Lima non richiama certo il fantasmagorico Macondo. In cambio quella del presidente deposto Pedro Castillo, 54 anni, socialista marxista ma anche cattolico tradizionalista, arrestato e incarcerato il 7 dicembre scorso con l’accusa da lui sempre respinta di aver tentato un auto-golpe, si presenta nei termini di un’avventura senza alcun dubbio straordinaria.

Con risvolti niente affatto secondari che rinviano necessariamente al realismo magico. La cui magia, ha detto e ripetuto Gabriel Garcia Marquez, consiste nel dovervi necessariamente ricorrere per spiegare determinate realtà del tutto vere e concrete. Com’è in questo caso, ridondante di contraddizioni.

Disuguaglianze laceranti, estesi conflitti armati e una profonda corruzione del sistema politico sono i precedenti storici che hanno portato allo shock costituzionale di tre mesi fa. A cui sono seguiti un nuovo governo (che ha evitato di passare per le urne e non viene ancora riconosciuto da numerosi paesi latinoamericani), quindi massicce e prolungate proteste popolari che dal nord-est del paese hanno raggiunto il cuore della capitale – dove tutt’ora resistono – per sostenere Castillo.

Combattute dalla polizia con fucili, blindati ed elicotteri: 61 morti, oltre un migliaio i feriti. Fino alla decisione delle nuove autorità di ritirare gli ambasciatori da Messico, Honduras e Colombia ritenuti paesi ostili. Una conflittiva scelta di autoisolamento, unica in situazioni analoghe.

A prima vista, può sorprendere anche la solidarietà espressa a Castillo da quasi tutti i governi latinoamericani, sempre suscettibili d’ogni violazione costituzionale. E ancor più quella personale, continua e molto affilata di tre capi di stato: Andrès Manuel Lopez Obrador da Città del Messico, il colombiano Gustavo Petro e Xiomara Castro, presidente dell’Honduras.

Tutti di centrosinistra, ma assai diversi tra loro per carattere e traiettoria individuali. Il presidente deposto, infatti, si è presentato in Parlamento a proclamare la sua decisione di dissolverlo. Accusando la maggioranza dell’abnorme quantità di partiti che lo affollano di avergli sistematicamente impedito di governare, respingendo le riforme da lui proposte (140 in totale). Un auto-golpe dichiarato, secondo il lessico canonico.

La reazione dei parlamentari, compresa una parte di quelli della sua stessa coalizione, è stata immediata. Ma proceduralmente impropria, affermano alcuni giuristi. L’hanno fatto arrestare. Contro ogni consuetudine, non gli è stato lasciato neppure il tempo di raggiungere l’ambasciata del Messico, che gli aveva offerto asilo. Ne hanno approfittato solo la moglie e una figlia.

Uno spirito di vendetta rivelatore dell’odio di casta che gli portano gli avversari e l’establishment in particolare (“odio e perdono” si sono troppo spesso impadroniti del Perù, ha scritto la storica peruviana Claudia Rosas, dottorata all’università di Firenze).

Castillo è un personaggio insolito, estraneo alla antropologia politica sudamericana. Un maestro rurale, vissuto tra le montagne e la selva amazzonica, che privo di concreta esperienza di governo pretendeva di riformare il paese riducendo per decreto ai potentati della costa e all’oligarchia di Lima i loro inveterati privilegi.

Era transitato meritevolmente nel sindacalismo; ma con ogni probabilità non sarebbe mai arrivato al vertice della Repubblica e forse neppure avrebbe fatto molta strada nella politica nazionale, senza i decenni di fuoco e fango che hanno distrutto la dirigenza dei partiti tradizionali. Così incitando la polarizzazione sociale e la conseguente esasperazione ideologica.

Al ballottaggio delle elezioni presidenziali (un anno e mezzo addietro), aveva superato Keiko Fujimori con un vantaggio ridottissimo: 44mila voti (su 18 milioni di votanti). Determinante era apparso il profondo rifiuto che suscitava nell’elettorato la sua avversaria, estrema destra, figlia di Alberto, 78, il corrotto e sanguinario dittatore d’origine giapponese condannato a 25 anni per reati di lesa umanità e ancora in carcere.

“Castillo pensa di rappresentare i popoli originari. Ad essi porta l’ultima lealtà. Quando ha affrontato il Congresso, aveva con sé 7 discorsi. Dice di averli concepiti nell’interesse degli oppressi. Ha letto il più duro, che non aveva mostrato a nessuno dei suoi ministri e assessori, al pari degli altri 6. Dice: chi sono gli avvocati di Palazzo per impormi quel che devo dire o non dire…”, racconta il suo avvocato difensore, l’argentino Guido Croxatto, che gli ha parlato a lungo nel penitenziario in cui rischia di restare per decenni.

E’ impressionato dalla figura dell’assistito. Dice che non pensa in termini istituzionali, giuridici, che il suo ragionare ha un fondo epistemologico, rivoluzionario. Gli avevano arrestato la figlia con accuse vaghe, si sentiva perseguitato, nega sdegnato ogni accusa di corruzione.

Precisa, però, che la detenzione di Castillo è arbitraria. “La sua – secondo Croxatto e numerosi altri avvocati – è una precisa infrazione costituzionale”. Non necessariamente un colpo di stato, per il quale mancavano le condizioni materiali. Castillo non aveva neppure preso il benché minimo contatto con i comandi delle Forze Armate. Né disponeva di alcun gruppo d’azione.

Ne è una dimostrazione anche la forza compatta della repressione subita dalle decine di migliaia di manifestanti tutti disarmati scesi a protestare per le strade contro l’insediamento del nuovo governo. Lo stesso sistema giuridico peruviano prevede in queste circostanze un processo di cui sarebbero state già violate le garanzie. Puntualizza Croxatto: “E’ stata usata una figura penale servita nei secoli a criminalizzare gli indigeni e al Congresso mancano tre voti dei 104 richiesti per interdire Castillo”.

Un’ultima coincidenza temporale suscita ulteriori sospetti. In questo 2023 stanno per venire a scadenza le concessioni trentennali per lo sfruttamento delle immense ricchezze naturali del Perù (metalli preziosi, terre rare, petrolio, peschiere, turismo) decretate nel corso della presidenza Fujimori. Il presidente deposto si era affrettato a far sapere che non le avrebbe rinnovate, senza prima un’adeguata indagine di mercato che chiarisse opportunità e congruità dei contratti rispetto alle condizioni internazionali di mercato.

Nei giorni scorsi, chiamato a presentare agli studenti della californiana Stanford University l’attualità sudamericana, vi ha fatto cenno il presidente della Colombia, Gustavo Petro: ”In via di principio non intervengo sulle situazioni specifiche interne d’altri paesi. Ma visto che mi ha dichiarato persona non grata, faccio un’eccezione: il presidente Castillo era stato messo sotto assedio da un Congresso in cui agiva una classe politica corrotta”.

Livio Zanotti

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